Eksar si accasciò sulla sedia. Anche i suoi strani occhi parvero affondare nelle orbite. — Lei è matto — disse con voce bassa e disperata. — Lei è fuori di testa.

Si voltò e guardò la porta girevole, poi si alzò e si avviò verso l'uscita. Aveva un'aria così abbacchiata che capii di aver davvero esagerato. Non si voltò indietro neanche una volta. Era chiaro che desiderava andarsene il più lontano possibile.

Mi infilai nella porta dietro di lui e lo afferrai per il fondo della giacca.

— Ascolti Eksar — mi affrettai a dirgli, mentre lui cercava di liberarsi. — Mi rendo conto di averle chiesto una cifra che non rientrava nel suo budget. D'accordo, forse ho esagerato, ma lei sa di poter fare di meglio. Duemila dollari sono una cifra ridicola. Io voglio il massimo che posso ottenere. Accidenti, si rende conto del tempo che sto investendo in questa trattiva? Quante altre persone sarebbero disposte a fare altrettanto?

Quella frase ottenne l'effetto sperato. Eksar inclinò la testa, poi annuì. Mentre si voltava, lasciò andare la sua giacca. Eravamo di nuovo in affari!

— Okay, lei sarà onesto con me e io sarò onesto con lei. Alzi un po' la sua offerta. Fino a quanto è disposto ad arrivare?

Eksar fissò la strada e rifletté in silenzio, passandosi la lingua ai lati della bocca. Anche la sua lingua era lercia! Dico sul serio! Era coperta da una patina nera di grasso o di sporco.

— Che cosa ne pensa — disse dopo un po' — di duemilacinquecento dollari? È la somma più alta che le posso offrire, dopodiché non mi resta più neanche un centesimo.

Non ne ero convinto. Quando qualcuno mi dice che più di una certa cifra non è in grado di spendere, io ho sempre la sensazione che sia disposto a fare ancora un piccolo sforzo. Eksar voleva assolutamente concludere quell'affare, ma tentava ancora di tirare sul prezzo. Era il genere di persona che può essere sul punto di morire di sete, nel senso che se non beve qualcosa nel giro di un secondo ci lascia la pelle, eppure, se gli offri un bicchiere d'acqua per un dollaro, strabuzza gli occhi e ti chiede se ti accontenteresti di novantacinque centesimi.

Era come me: un affarista nato.

— So che può arrivare fino a tremila — lo sollecitai. — In fondo, che cosa sono tremila dollari? Solo cinquecento in più. Pensi a tutto quello che lei compra per questa cifra: la Terra intera, più i diritti di pesca, i diritti minerari e quelli sui tesori nascosti sulla Luna. Le sembra poco?

— Non posso. Proprio non posso. — Scosse la testa, come se volesse liberarsi di tutti i suoi tic. — Però, forse possiamo fare così: io arrivo a duemilaseicento dollari, in cambio dei quali lei mi vende la Terra, i diritti di pesca e quelli sui tesori nascosti sulla Luna. Le lascio i diritti minerari, ci rinuncio.

— Facciamo duemilaottocento, compresi i diritti minerari. Lei li vuole, io lo so. Avanti, si faccia questo regalo! Cosa sono duecento dollari in più?

— Non si può avere tutto. Ci sono cose che costano troppo. Che ne dice di duemilaseicentocinquanta senza i diritti minerari e senza i diritti sui tesori nascosti?

Stava per cedere, lo sentivo.

— Questa è la mia ultima offerta — gli dissi. — Non posso perdere tutta la giornata a trattare. Sono disposto a scendere a duemilasettecentocinquanta dollari, non un centesimo di meno. Per questa cifra le offro la Terra e i diritti di pesca sulla Luna. O, in alternativa, i diritti sui tesori nascosti. Scelga lei quello che preferisce.

— D'accordo — mi rispose Eksar — lei è un duro: faremo come vuole lei.

— Duemilasettecentocinquanta per la Terra e i diritti di pesca o quelli sui tesori nascosti sulla Luna?

— No, duemilasettecento dollari senza i diritti sulla Luna. A quelli rinuncio. Duemilasettecento dollari per la Terra e basta.

— Affare fatto! — esclamai con viva soddisfazione. Ci stringemmo la mano.

Poi, passandogli un braccio sulle spalle, che cosa me ne importava del luridume della sua giacca, visto che per me quel tizio valeva duemilasettecento dollari?, lo ricondussi al drugstore.

— Voglio una ricevuta — mi ricordò Eksar

— D'accordo — gli risposi. — Ma ci scriverò sopra quello che ho già precisato sulle precedenti: che io le vendo qualsiasi proprietà o diritto io possieda o abbia titolo di vendere. Lei acquista un sacco di cose in cambio della cifra che mi dà.

— Lei intasca un sacco di soldi per quello che mi vende — fu pronto a ribattere lui. Mi piaceva. Poteva essere sporco e pieno di tic, ma era proprio il genere di persona che mi è congeniale.

Ci presentammo di nuovo al titolare del drugstore per l'autenticazione della ricevuta e, onestamente, non ho mai visto un uomo più disgustato in vita mia.Gli affari vanno a gonfie vele, eh? — osservò.

— Senta — gli dissi — lei si limiti a fare il suo dovere. — Mostrai la ricevuta a Eksar. — È così che la vuole?

Lui la studiò e tossì. — Qualsiasi proprietà o diritto lei possieda o abbia titolo di vendere. D'accordo. E aggiunga anche, in qualità di venditore autorizzato, la sua qualifica professionale, insomma.

Modificai la ricevuta e la firmai. Il titolare del drugstore la autenticò.

Eksar estrasse dalla tasca dei pantaloni il fascio di banconote. Contò cinquantaquattro biglietti da cinquanta dollari, freschi di stampa, e li appoggiò sul vetro del bancone. Poi prese la ricevuta, la piegò e la mise via. Si avviò verso la porta.

Io afferrai il denaro e lo seguii. — Le interessa qualcos'altro?

— No, basta così — disse lui. — Il nostro affare l'abbiamo concluso.

— Lo so, ma magari c'è qualcos'altro che lei vorrebbe comprare e che io potrei venderle.

— No, non mi interessa nient'altro. Ho già acquistato quello che mi interessava. — E dal tono della sua voce era chiaro che era convinto di quello che diceva.

Lo seguii con lo sguardo mentre usciva dal locale attraverso la porta girevole. Quando fu in strada, prese immediatamente a sinistra e si allontanò di gran carriera, come se avesse una fretta del diavolo.

Fine degli affari. Molto bene. Nel portafoglio avevo tremiladuecentotrenta dollari, tutti guadagnati in una sola mattina.

Ma ero stato davvero bravo? Intendo dire, qual era la cifra massima prevista dall'ideatore del programma? Quanto mi ci ero avvicinato?

Avevo un conoscente che forse avrebbe potuto scoprirlo: Morris Burlap.

Anche Morris Burlap si occupa di affari come me, ma la differenza è che lui fa l'agente teatrale, ed è un agente in gamba, molto in gamba. Anziché vendere un carico di cavi di rame usato o un'opzione su un lotto d'angolo a Brooklyn, lui vende talento. Vende una compagnia di ballerini a un albergo in montagna, un pianista a un locale e un disc-jockey o un comico a una radio privata. La ragione per cui lo chiamano Morris Burlap è dovuta ai pesanti vestiti di tweed di Harris, che porta tutti i santi giorni dell'anno, estate e inverno. Rafforzano la sua immagine, dice lui.

Lo chiamai da una cabina telefonica vicino all'entrata del drugstore e gli parlai del programma a premi. — Adesso, quello che vorrei scoprire è...

— Non c'è niente da scoprire, Bernie — mi interruppe lui. — Non esiste nessun programma del genere.

— Ma certo che esiste, Morris, solo che, magari, tu non ne hai sentito parlare.

— Ti ripeto che questo programma non esiste e non è mai esistito. Ascolta: prima che un programma del genere arrivi a regalare tutto quel denaro, deve essere inserito in un palinsesto e avere già un proprio spazio televisivo. E prima ancora che i produttori acquistino lo spazio televisivo, gli organizzatori hanno già pronto uno spettacolo pilota. Ma a quel punto si sarebbero già rivolti a me per la ricerca dei conduttori e io avrei avuto decine e decine di occasioni di sentirne parlare. Non cercare di insegnarmi il mio mestiere, Bernie: se io ti dico che questo programma non esiste, significa che non esiste.

Quello che diceva aveva senso. All'improvviso mi passò per la mente un'idea folle, ma la scacciai. No, non poteva essere.

— Allora potrebbe trattarsi di una specie di ricerca, condotta da qualche giornale o da qualche università, come pensa Ricardo...

Morris rifletté in silenzio. Ero pronto a sedermi in quella cabina polverosa e ad aspettare anche tutta la vita se necessario: Morris Burlap è una persona molto intelligente. — Quei documenti, quelle ricevute autenticate non mi convincono. No, giornali e università non agiscono in quel modo. E nemmeno i matti si comportano così. Credo che ti abbiano fregato, Bernie. Come, non lo so, ma ti hanno fregato.

Per me era più che sufficiente. Morris Burlap sa fiutare un imbroglio attraverso uno strato isolante di cinque metri di lana di roccia. E non si sbaglia mai. Mai.

Riappesi la cornetta, mi sedetti e pensai... L'idea folle di poco prima si affacciò con prepotenza alla mia mente ed esplose.

Un pugno di extra-terrestri sbarca sulla Terra e dice di voler comperare il nostro pianeta. Vogliono trasformarlo in una colonia, in una località di villeggiatura o chissà in che cosa diavolo d'altro... In realtà sarebbero abbastanza forti e progrediti da poterla conquistare con la forza, ma non vogliono farlo.

Si sa, anche una grande nazione che ne vuole invadere una più piccola aspetta che scoppi almeno qualche disordine ai confini, prima di entrare in azione. Così ha un pretesto legale. Anche una grande nazione ha bisogno di un pretesto legale.

D'accordo. Forse, tutto quello di cui avevano bisogno quegli extra-terrestri era un pezzo di carta firmato da un essere umano, genuino e con tutte le carte in regola, che si dichiarasse disposto a vendere loro la Terra. Ma no, non poteva essere. Poteva bastare un qualunque pezzo di carta? Firmato da un Pinco Pallino qualsiasi?

Cacciai un quarto di dollaro nel telefono e chiamai l'università di Ricardo. Lui era fuori ufficio. Spiegai alla centralinista che si trattava di una cosa urgente e lei mi rispose che avrebbe cercato di rintracciarlo.

Era stata tutto un imbroglio la storia del Golden Gate e del Mare di Azov, proprio come lo scambio iniziale di venti dollari contro cinque. O meglio quelle erano state le esche con cui Eksar mi aveva fatto abboccare all'amo, per indurmi poi a vendergli la Terra.

E tutte quelle balle sui diritti in più sulla Luna! Gli erano servite per non farmi capire quale fosse il suo vero obiettivo e aumentare il suo potere contrattuale.

Poniamo il caso che io abbia intenzione di comprare un carico di piccole sveglie da viaggio di cui so che un grossista ha il magazzino pieno. Comincio forse discutendo il prezzo delle sveglie? No di certo. Dico al grossista che vorrei acquistare una partita di ombrellini pieghevoli per signora e dodici dozzine di sveglie, diciamo svegliette da viaggio, se ha un buon affare sotto mano e, possibilmente, anche alcuni portafogli da uomo.

Ecco come aveva agito Eksar con me. Era come se avesse studiato un piano. Solo da me, doveva comprare.

Ma perché proprio da me?

Tutte quelle cose che mi aveva fatto scrivere sulla ricevuta, sulla mia quota di proprietà e sulla mia qualifica professionale, che cosa diavolo significavano? Io non possiedo la Terra; io non mi occupo di compra-vendita di pianeti. Devi essere proprietario di un pianeta per poterlo vendere. Questa è la legge.

Perciò che cosa avrei potuto vendere a Eksar? Io non possiedo beni immobili. Che cosa faranno, mi sequestreranno l'ufficio, ipotecheranno il tratto di marciapiede su cui cammino o la sedia della tavola calda dove vado a bere il caffè?

Queste considerazioni mi riportarono alla domanda iniziale. Chi diavolo erano "quelle persone"?

Finalmente la centralista riuscì a scovare Ricardo. Era seccato. — Sono in pieno consiglio di facoltà, Bernie. Ti richiamo più tardi, okay?

— Ascoltami soltanto un secondo — lo supplicai. — Mi sono cacciato in una strana situazione, anche se non so bene di che cosa si tratti, e ho bisogno di un consiglio.

Gli raccontai rapidamente quello che mi era successo - sentivo le voci di molti pezzi grossi in sottofondo - da quando gli avevo telefonato quella mattina. Gli descrissi l'aspetto e l'odore di Eksar, la sua strana Tv portatile e il modo in cui aveva rinunciato a tutti i diritti sulla Luna per potersi assicurare la proprietà della Terra. Poi gli riferii quello che Burlap Morris mi aveva detto e i sospetti che mi erano venuti: tutto quanto, insomma. — Ma la domanda che mi pongo è — conclusi con una risatina, come per dimostrare che non stavo prendendo la faccenda realmente sul serio — chi sono io per concludere un affare simile?

Ricardo non mi rispose subito e mi diede l'impressione di essere assorto in una seria riflessione. — Non lo so, Bernie, ma è possibile. Quadrerebbe. Mi riferisco al punto di vista dell'Onu.

— Il punto di vista dell'Onu. Quale punto di vista dell'Onu?

— Il punto di vista dell'Onu sulla questione. Lo... studio delle Nazioni Unite a cui ho collaborato due anni fa. — Stava parlando in modo ambiguo per non farsi capire dai colleghi. Ma io capii quello che intendeva dire. Lo capii molto bene.

Eksar doveva aver saputo fin dall'inizio dell'affare che Ricardo mi aveva procurato, quello riguardante la vendita dei vecchi macchinari per ufficio delle Nazioni Unite. Per poter vendere le macchine, mi avevano rilasciato quello che chiamavano un documento di autorizzazione. In qualche archivio, era conservata una dichiarazione, scritta su carta intestata dell'Onu, in base alla quale venivo nominato venditore autorizzato degli apparecchi e delle attrezzature di seconda mano in esubero.

Quale migliore pretesto legale avrebbe potuto trovare?

— Ma pensi che possa reggere? — domandai a Ricardo. — Riesco a immaginare come la Terra possa essere concepita come un insieme di macchinari e di attrezzature. Ma in esubero?

— Il diritto internazionale è estremamente complesso, Bernie. E questa faccenda potrebbe essere ancora più complicata. Sarebbe saggio che tu facessi qualcosa.

— Ma che cosa? Che cosa dovrei fare, Ricardo?

— Bernie — mi rispose con voce più seccata che mai. — Ti ho già detto che sono a un consiglio di facoltà, maledizione. Un consiglio di facoltà! — E riagganciò.

Corsi come un matto fuori dal drugstore, presi un taxi al volo e mi precipitai all'albergo di Eksar.

Di che cosa avevo più paura? Non lo sapevo, ero in preda al panico. Era una questione troppo delicata e maledettamente pericolosa per una persona semplice e di poca importanza come me. Rischiavo di conquistarmi la fama del più stupido venditore della storia dell'umanità. Chi si sarebbe mai più fidato a fare affari con me? Era come se qualcuno mi avesse chiesto di vendergli una fotografia e io gli avessi risposto, ma certamente, per poi scoprire che si trattava di un'istantanea dello Zeus di Nike, sapete, uno di quei missili atomici super segreti. Solo che quello che avevo fatto era anche peggio: avevo svenduto tutto il mio maledettissimo mondo! E dovevo ricomprarlo! Dovevo ricomprarlo a qualunque costo.

Quando arrivai alla stanza di Eksar, mi resi conto che stava per lasciare l'albergo. Stava infilando la sua strana Tv portatile in una di quelle valigie di pelle da pochi dollari che vendono nei grandi magazzini. Lasciai la porta aperta per fare entrare la luce.

— Io con lei il mio affare l'ho concluso — mi disse. — E non ho intenzione di farne altri.

Io rimasi fermo sulla soglia della camera, in modo da bloccare l'uscio. — Eksar — gli dissi — senta un po' che cosa ho scoperto. Innanzi tutto lei non è umano. Non come me, intendo.

Io sono di gran lunga più umano di lei, amico mio.

O certo. Lei è una Cadillac fuoriserie, mentre io sono una normale berlina a quattro cilindri. Ma lei non è di questa Terra... ecco la differenza. E quello che voglio sapere è perché lei vuole la Terra. Non può aver personalmente bisogno di un...

— Non sono io ad averne bisogno. Io sono un agente. Rappresento altre persone.

Eccola, la verità, chiara e tonda! Avevi ragione, Morris Burlap! Fissai i suoi occhi da pesce con cui sembrava voler perforare i miei. Non sarei indietreggiato neanche di un passo se avesse tentato di uccidermi. — Dunque lei agisce per conto di altri — ripetei lentamente. — Chi sono? E perché vogliono la Terra?

— Questi sono affari loro. Io sono un agente. Mi limito ad acquistare a nome loro.

— Lei lavora a provvigione?

— Non lo faccio certo perché mi fa bene alla salute.

Questo è poco ma sicuro, pensai. Quella brutta tosse e tutti quei tic... All'improvviso era tutto chiaro. Quella non era certo l'aria alla quale era abituato. È come quando io vado in Canada, mi viene subito la diarrea. E per via dell'acqua, credo, o qualcos'altro.

La sporcizia che aveva sul viso era una specie di crema solare. Una protezione contro i raggi del sole! Ecco la ragione delle tapparelle abbassate e del lerciume dei suoi vestiti, che doveva accordarsi con quello della faccia!

Eksar non era un barbone. Tutt'altro! Dei due ero io il barbone! Pensa, Bernie, mi dissi. Pensa e agisci in fretta, come non hai mai fatto in vita tua. Questo tizio ti ha fregato, e alla grande, anche!

— Qual è la tua provvigione... il dieci per cento? — Nessuna risposta. Appoggiò il petto contro il mio: a ogni respiro soffriva e si dimenava. — Sono disposto a pagarti di più di quello che ti pagano loro, Eksar. Sai quanto ti darò? Il quindici per cento! Sai, io sono fatto così, detesto vedere qualcuno sgobbare per un misero dieci per cento.

— E l'etica professionale dove la mette? — ribatté lui con voce roca. — Io ho un cliente.

— Senti chi parla di etica! Uno che è pronto a comprare la Terra per duemila e settecento dollari? Lei la chiama etica, questa?

A quel punto Eksar si arrabbiò. Depose la valigia e si colpì il palmo della mano con un pugno. — No, lo chiamo fare affari. Io offro e tu prendi. Tu te ne vai via felice, convinto di aver concluso un buon affare. Poi all'improvviso, torni indietro in lacrime, dicendo di aver venduto troppo per i soldi che hai incassato. Peggio per te! Io ho un'etica professionale: io non fotto il mio cliente per un piagnucolone.

— Io non sono un piagnucolone. Sono soltanto un povero stupido che cerca di guadagnarsi da vivere. Ma tu chi sei? Devi essere una persona molto importante nel mondo da cui vieni, una di quelle che conoscono tutti i trucchi, che hanno accesso alle leve del potere, che hanno interessi che io nemmeno oso immaginare.

— Se tu conoscessi certi trucchi o avessi certi poteri non li useresti?

— Ci sono espedienti a cui non ricorrerei mai e cose che non farei mai. Non ridere, Eksar, dico sul serio. Non caccerei un tizio in un polmone d'acciaio per quanto grande possa essere il guadagno che potrei ricavarne. E non imbroglierei un povero stupido che lavora come un mulo in un buco d'ufficio per fargli fare la figura di aver svenduto tutto il suo pianeta.

— Svenduto non è la parola esatta — replicò Eksar. — Le ricevute che hai firmato sono perfettamente legali. Noi abbiamo la macchina legale necessaria per renderle valide e abbiamo anche altre macchine, macchine di dimensione planetaria. Appena il mio cliente prenderà possesso della Terra, la razza umana verrà spazzata via, kaput,finita per sempre. E tu sei solo un povero cretino.

Faceva un caldo d'inferno lì, fra la stanza e il corridoio, e io stavo grondando di sudore. Ma più i minuti passavano e più mi sentivo meglio. Prima quell'appello all'etica e adesso un banale tentativo di spaventarmi. Forse il contratto che aveva con il suo cliente non era poi così buono, forse il motivo era un altro, ma una cosa era certa: Eksar voleva fare affari con me. Gli sorrisi.

Lui abboccò. Cambiò leggermente colore sotto lo strato di sporcizia. — Comunque, quale sarebbe la tua offerta? — mi domandò, tossendo. — Dì una cifra.

— Be', riconosco che tu abbia diritto a un guadagno. È giusto. Facciamo tremilacentocinque dollari. I duemilasettecento che mi hai dato più il quindici per cento. Affare fatto?

— Eh no! — urlò. — Con i tre affari che abbiamo concluso mi hai spillato tremiladuecentotrenta dollari e adesso me ne offri tremilacentocinque per riprenderti tutto quanto? Tu scendi, amico, scendi anziché salire. Levati dai piedi, mi stai solo facendo perdere tempo.

Si voltò leggermente e mi diede uno spintone. Io andai a sbattere contro la parete del corridoio. Se era forte, ragazzi! Lo rincorsi mentre si avviava verso l'ascensore... aveva ancora tutte le ricevute in tasca.

— Quanto vuoi, Eksar? — gli domandai mentre scendevamo. Faccio dire a lui una cifra, in modo da poter poi trattare, pensavo.

Lui scrollò le spalle. — Possiedo un pianeta e ho un cliente pronto a comprarlo. Mentre tu, tu sei nei guai. Chi è causa del suo mal pianga se stesso.

Lurido verme. Per ogni mia mossa lui conosceva una contromossa.

Saldò il conto dell'albergo e uscì. Io lo seguii. Lui si avviò lungo Broadway. La gente ci fissava: che cosa ci faceva un tipo rispettabile come me insieme a un barbone come quello?

Gettai la spugna e gli offrii i tremiladuecentotrenta dollari che mi aveva pagato. Lui mi rispose che non ci guadagnava niente spendendo e incassando la stessa somma di denaro in un giorno.

— Facciamo tremilaquattrocento, allora? Intendo dire, tremilaquattrocentocinquanta?

Lui non disse niente. Continuò semplicemente a camminare.

— Vuoi tutto? — dissi alla fine. — Okay, prenditi tutto: tremilasettecento dollari, tutto quello che ho. Hai vinto.

Ancora nessuna risposta. Cominciavo a preoccuparmi. Dovevo costringerlo a propormi una cifra, qualsiasi cifra, o per me sarebbe stata la fine. Mi parai davanti a lui. — Eksar — dissi — smettiamo di prenderci in giro. Se tu non fossi disposto a vendere, non avresti iniziato a trattare. Dimmi quanti soldi vuoi e io pagherò, di qualunque somma si tratti...

La sua reazione fu immediata. — Dici sul serio? Non stai cercando di imbrogliarmi?

— Come potrei? Sono preso per la gola.

— Okay. Per ritornare dal mio cliente dovrei compiere un viaggio molto, molto lungo. Perché dovrei fare tanta fatica quando qui posso aiutare qualcuno che è in difficoltà? Dunque, vediamo un po'... abbiamo bisogno di una cifra che sia equa per te e per me e, in assoluto. Direi che potremmo accordarci per... sedicimila dollari.

Ecco fatto. Mi aveva sistemato. Eksar vide la mia faccia e scoppiò a ridere. Rise così tanto che alla fine fu colto da un accesso di tosse.

Crepa, bastardo, pensai, crepa. Spero tanto che l'aria di questo pianeta sia veleno per i tuoi polmoni e che tu possa morire soffocato.

Sedicimila dollari... era esattamente il doppio di quanto avevo in banca. E lui doveva sapere perfettamente a quanto ammontavano i miei risparmi, fino all'ultimo centesimo.

E mi leggeva anche nel pensiero. — Quando vai a trattare affari con qualcuno — disse fra un colpo di tosse e l'altro — prendi informazioni su di lui.

— Spiegati meglio — gli dissi con tono sarcastico.

— D'accordo. Tu possiedi settemilaottocento dollari e spiccoli. Più duecento in crediti esigibili. Per il resto chiederai un prestito.

— Proprio quello di cui avevo bisogno... indebitarmi fino al collo per questo affare!

— Puoi chiedere aiuto ai tuoi amici — cercò di blandirmi Eksar. — Un uomo come te, nella tua posizione, con i tuoi contatti, può chiedere qualche prestito. Ma voglio essere buono: mi accontenterò di dodicimila dollari. Sarò buono. Che ne pensi?

— Balle, caro mio. Visto che mi conosci tanto bene, sai anche che non posso permettermi di chiedere prestiti.

Eksar distolse lo sguardo e lo posò sulla statua di padre Duffy, coperta di guano, di fronte al Palace Theater. — Il problema è — disse con tono mesto — che non mi sembrerebbe giusto ritornare dal mio cliente lasciandoti in questo brutto guaio. Queste cose proprio non riesco a farle. — Gettò indietro le spalle... sapete, si stava preparando a prendere un sacco di legnate al posto di un amico ed era tutto orgoglioso di sé. — E va bene. Accetterò soltanto gli ottomila dollari che hai in banca e chiudiamo il discorso.

— Hai finito di fare la commedia? Bene. Adesso lascia che ti chiarisca un po' le idee. Tu non mi estorcerai ottomila dollari. Un po' di guadagno va bene, sono il primo a riconoscere di dover pagare qualcosa. Ma non ti darò ogni centesimo di ciò che posseggo, neanche fra un milione di anni, neanche per tutta la Terra, per nessuno al mondo!

Stavo urlando e un poliziotto che passava di lì si avvicinò per dare un'occhiata. In quel momento pensai di gridare: "Aiuto! Polizia! Gli alieni ci stanno invadendo!", ma sapevo che il destino della Terra era nelle mie mani. Perciò mi calmai e aspettai che l'agente si allontanasse.

— Eksar, se il tuo cliente prende possesso della Terra sventolando la ricevuta che ti ho rilasciato, io finirò sulla forca. Ma io ho una vita sola, e la mia vita è fare affari. Non posso né comprare né vendere se non ho un capitale. Se mi porti via tutto il denaro che ho, per me non fa nessuna differenza chi sia il padrone della Terra.

— Chi diavolo credi di prendere in giro?

— Io non sto prendendo in giro nessuno. Questa è la pura verità. Se mi lasci senza soldi, per me non fa nessuna differenza essere vivo o morto.

Sembrava che quella mia ultima mossa fosse andata a segno. Ascoltate, avevo praticamente le lacrime agli occhi mentre parlavo. Di quanto denaro avevo bisogno, voleva sapere... cinquecento dollari? Gli risposi che non sarei sopravvissuto un solo giorno con un capitale inferiore a sette volte quella cifra. Lui mi chiese se fossi davvero sicuro di voler ricomperare il mio schifoso pianeta o se per caso quello fosse il giorno del mio compleanno e mi aspettassi un regalo da lui.

E andammo avanti così. Continuammo a trattare, sempre più furibondi, a discutere e a giurare su questo e su quello. Era una lotta all'ultimo sangue a chi avrebbe ceduto per primo.

Ma nessuno dei due cedeva. Tenemmo duro fino a quando raggiungemmo la cifratila quale avevo previsto fin dall'inizio che saremmo arrivati, forse un po' di più.

Seimilacentocinquanta dollari.

Era più del doppio di quanto Eksar avesse dato a me. Dopo tutto mi sarebbe potuta andare peggio.

Ciò nonostante, quando cominciammo a parlare delle modalità di pagamento, tutta la trattativa rischiò di andare in fumo.

— La tua banca non è lontana. Potremmo andarci prima che chiuda.

— Perché vuoi farmi fare tutta quella strada? Non vorrai mica che mi venga un infarto? Un mio assegno vale come oro.

— E chi vuole un pezzo di carta? Io accetto solo moneta sonante.

Alla fine riuscii a convincerlo ad accettare un assegno. Lo compilai e lo firmai. In cambio lui mi restituì tutte le ricevute, dalla prima, quella di venti dollari in cambio della banconota da cinque, fino all'ultima. Dopodiché prese la sua valigia e se ne andò.

Diritto per la sua strada, senza nemmeno salutarmi. A Eksar interessavano solo gli affari e basta. Non si voltò indietro neanche una volta.

Soltanto gli affari contavano per lui, nient'altro. Ne ebbi la conferma il mattino successivo, quando scoprii che quel pomeriggio era andato subito alla mia banca ed era riuscito a farsi garantire il mio assegno prima dell'orario di chiusura. Bene, che cosa ve ne pare? Non potevo fare niente: avevo perso seimilacentocinquanta dollari e tutto per aver dato retta a una persona.

Ricardo disse che ero un novello Faust. Uscii dalla banca prendendomi a sberle e telefonai sia a lui che a Morris Burlap per invitarli a pranzo. Ripercorsi insieme a loro tutte le tappe di quella vicenda in uno dei ristoranti più cari della città, scelto da Ricardo. — Tu sei come Faust — mi disse.

— Che Faust? — gli domandai. — Chi diavolo è questo Faust?

E così, naturalmente, fu costretto a raccontarci la storia di Faust. La differenza, disse, era che io rappresentavo un nuovo genere di Faust, un Faust americano del ventesimo secolo. Gli altri Faust volevano conoscere tutto, io volevo possedere tutto.

— Ma il fatto è che il sottoscritto alla fine si è ritrovato con un pugno di mosche in mano — sottolineai. — Anzi, peggio, imbrogliato in grande stile, turlupinato di seimilacentocinquanta dollari.

Ricardo ridacchiò e, appoggiandosi alla spalliera della sedia, disse sotto voce: — Oh, mio amato oro!

— Che cosa?

— È una citazione, Bernie. Dal Doctor Faustus di Marlowe. Non ricordo il contesto, ma mi sembrava adatta. "Oh, mio amato oro!"

Guardai Morris Burlap, ma nessuno riesce mai a capire quando Morris sia confuso. Anzi, per la verità ha un'aria più professorale di Ricardo, con quei suoi abiti di tweed pesante e quell'espressione pensosa. Sapete, Ricardo è un po' troppo azzimato.

Comunque, tra tutti e due possiedono il massimo dell'intelligenza e dell'acume che si possa pretendere da un essere umano ed era per questo che avevo accettato di svenarmi invitandoli a pranzo.

— Morris, dimmi la verità, tu lo capisci?

— Che cosa c'è da capire, Bernie? Una citazione sull'amato oro? Potrebbe essere la risposta giusta.

Rivolsi la mia attenzione a Ricardo. Stava mangiando avidamente un dolce italiano al cucchiaio. Due dollari a porzione, costano in posti come quello quel genere di dolci.

— Supponiamo che sia un alieno — disse Burlap Morris. — Supponiamo che sia arrivato dallo spazio. La domanda che sorge spontanea è questa: che cosa se ne fa un alieno di dollari americani? Quale sarà il cambio sul pianeta da cui proviene? Quanto varrà il dollaro a quaranta, cinquanta anni luce di distanza?

— Intendi dire che aveva bisogno di quei soldi per comperare della merce qui sulla Terra?

— Esatto, Bernie. Ma che genere di merce? È questa la domanda a cui dobbiamo dare una risposta. Che cos'ha la Terra da offrire che a lui potrebbe interessare?

Ricardo finì il dolce e si pulì la bocca con il tovagliolo. — Penso che tu sia sulla strada buona, Morris — disse, riconquistando la mia attenzione. — È legittimo ipotizzare che questo individuo appartenga a una civiltà molto più avanzata della nostra: così avanzata da ritenere che noi non siamo ancora pronti a conoscerla. Una civiltà che ha rigorosamente dichiarato off-limits la nostra piccola Terra primitiva... un ordine che soltanto pochi, disperati criminali osano ignorare.

— Ma Ricardo, da dove vengono i criminali, se si tratta di una società tanto avanzata?

— Mio caro Bernie, la legge genera delinquenti come le galline producono uova. Il progresso non c'entra niente. Comincio a inquadrarlo questo Eksar: un avventuriero senza scrupoli, la versione extra-terrestre di quei tagliagole che cento anni fa o più seminavano terrore nei mari del sud. Ogni tanto, qualche nave finiva contro la barriera corallina e naufragava, e uno schifoso opportunista di Boston era condannato a finire i suoi giorni su un'isola abitata da tribù primitive. Sono certo che puoi immaginare il resto.

— No, non ci riesco. E, se non ti dispiace, Ricardo...

Morris Burlap disse che avrebbe gradito un altro brandy. Chiamai il cameriere e lo ordinai. Morris accennò a quella che per lui era l'espressione più simile a un sorriso e si protese verso di me con aria confidenziale. — Ricardo ha ragione, Bernie. Mettiti nei panni di questo Eksar. Sbarca con la sua navicella spaziale su uno sporco pianetucolo a cui a lui e ai suoi simili è proibito perfino avvicinarsi. La sua nave ha bisogno di riparazioni, ma per eseguirle deve procurarsi alcuni materiali che esistono anche sulla Terra. Ma non può rubarli, deve comprarli perché la minima infrazione, il più piccolo errore potrebbero costargli cari: se venisse scoperto potrebbe venire arrestato per un reato federale nello spazio. Immagina di essere al posto di Eksar: tu che cosa faresti?

Adesso mi era tutto chiaro. — Venderei quello che ho, braccialetti di rame, fili di perle, dollari, e cercherei di far fruttare i soldi che guadagno. Continuerei a cercare di fare affari fino a quando avessi accumulato la somma di cui ho bisogno. Forse inizierei vendendo un pezzo della nave, poi cercherei qualcosa di nuovo che gli indigeni fossero disposti a comprare. Ma tutto questo rientra nella strategia di vendita degli esseri umani!

— Bernie — mi disse Ricardo — un volta gli indiani barattavano pelli di castoro con conchiglie colorate sullo stesso suolo su cui oggi sorge la Borsa. Anche nel mondo di Eksar si fanno affari, te lo assicuro, ma al confronto della loro forma più semplice di trattativa, le nostre fusioni di multinazionali sono paragonabili al gioco della campana.

Be' volevo essere sicuro di aver capito bene. — Così, io sarei stato individuato come il pesce da prendere all'amo fin dall'inizio — borbottai — fregato come un pivello da una specie di superman degli imbroglioni.

Ricardo annuì. — Da un Mefistofele degli affari sfuggito ai fulmini del cielo. Aveva bisogno di raddoppiare la somma che possedeva, per mettere assieme il denaro necessario per riparare la sua nave, e poteva contare sulle più sofisticate conoscenze di tecnica commerciale.

— Quello che Ricardo sta cercando di dirti — interloquì Burlap Morris a bassa voce — è che quel tizio che ti ha fregato era molto, molto più grande di te.

Mi sentii cedere le spalle, come se fossero sul punto di scivolarmi lungo le braccia. — Che diamine — borbottai. — Che ti calpesti un cavallo o un elefante alla fine ti ritrovi sempre pesto.

Pagai il conto, mi rimisi in sesto e me ne andai.

Però, cominciai a rimuginare la strana ipotesi avanzata da Ricardo e alla fine mi domandai se in fondo tutte quelle elucubrazioni potessero essere vere. Entrambi i miei amici sembravano godere un mondo nel vedermi fare la parte del fessacchiotto interplanetario. Ricardo è un pozzo di scienza, Morris Burlap ha un acume straordinario, e con questo?, le loro erano soltanto illazioni, non fatti.

Ma un fatto c'è.

A fine mese ricevetti dalla banca il mio estratto conto bancario con l'addebito dell'assegno che avevo staccato a favore di Eksar. Era stato incassato da un grande negozio della zona di Cortlandt Street. Conosco quel negozio. Ho fatto affari con i gestori. E così sono andato a chiedere qualche informazione.

Vendono soprattutto eccedenze di componenti elettronici a prezzi ribassati. Ed erano quelli che Eksar aveva comprato, mi dissero. Un ordine enorme di transistor e trasformatori, resistori e circuiti stampati, valvole elettroniche, filo elettrico, e attrezzi vari. Un sacco di pezzi che apparentemente non avevano niente a che vedere gli uni con gli altri. Aveva dato al commesso l'impressione di avere un lavoro urgente da fare e... di aver preso ciò che più si avvicinava a quello che gli serviva veramente. Aveva speso una fortuna di costi di trasporto: il luogo della consegna era una cittadina sperduta del nord del Canada.

Questo è un fatto, devo ammetterlo. Ma ce n'è anche un altro.

Come ho detto, ho avuto rapporti d'affari con i gestori di questo negozio. I loro prezzi sono i più bassi di tutta la zona. E perché, secondo voi, vendono a prezzi bassi? La risposta è una sola: perché acquistano a prezzi bassi. Anzi, ai prezzi più bassi; a loro non interessa un accidente della qualità dei prodotti: l'unica cosa che vogliono sapere è: quanto possiamo ricaricare? Io, personalmente, ho venduto a loro una partita di rimanenze di materiale elettronico che non riuscivo a piazzare da nessun'altra parte: roba confiscata, mal fatta, roba che era quasi pericolosa. È il genere di negozio a cui cerchi di vendere quando hai rinunciato all'idea di ricavare qualsiasi profitto da un affare perché ti hanno rifilato merce di qualità inferiore a quella pattuita.

Riuscite a immaginare la scena? È una scena che mi mette un gran buon umore.

Vedo Eksar, tutto tronfio, alla guida della sua navicella. È riuscito a fare le riparazioni necessarie a farla volare e si sta dirigendo verso una nuova meta, per concludere un altro dei suoi lucrosi affari. Sorride soddisfatto: la sua astronave funziona di nuovo e lui ripensa a come mi ha fregato, a come è stato facile.

E rise, ride a crepapelle.

Poi all'improvviso, sente uno stridore e puzza di bruciato. Nel circuito del motore di prua, il filo elettrico, non sufficientemente isolato, ha fatto contatto e adesso sta bruciando. Eksar si spaventa. Accende i motori ausiliari. Ma i motori ausiliari non rispondono... e sapete perché? I tubi a vuoto che ha usato sono inservibili, come se fossero vecchi, pur essendo nuovi di zecca. Pum! Un corto circuito nel motore di poppa. Sss! Un trasformatore difettoso che si è fuso nel corpo centrale della nave.

E lui è lì, in mezzo allo spazio, a milioni di chilometri di distanza da qualsiasi luogo di atterraggio, senza più pezzi di ricambio, con arnesi che gli si rompono in mano e non una sola anima vivente da poter imbrogliare.

Mentre io sono qui, che cammino avanti e indietro nel mio ufficio di due metri per tre, e penso a lui e rido a crepapelle. Perché è possibile, è effettivamente possibile, che i componenti che si sono guastati sulla sua nave facciano parte di una di quelle partite di materiale scadente che io stesso, Bernie, il novello Faust, ho venduto a quel negozio.

È tutto quello che chiederei. Che le cose andassero così.

 

Una rosa per le Ecclesiaste

A Rose for Ecclesiastes

di Roger Zelazny

The Magazine of Fantasy and Science Fiction, novembre

 

Sono i primi di novembre e sono appena ritornato da una World Fantasy Convention che si è tenuta a Tucson, dove ho avuto il grande piacere di trascorrere parte di una serata con Roger Zelazny. Questo mi ha permesso di scoprire che è una persona intelligente e interessante come ciò che scrive. Negli anni sessanta Zelazny si è imposto come autore di alcune fra le opere di fantascienza più ragguardevoli che siano mai state scritte: libri come This Immortal (1966), The Dream Master (1966: che annata!), Lord of Light (1967), Isle of the Dead e Damnation Alley (entrambi del 1969). Ma la sua brillante carriera continua ancor oggi, recentemente contraddistinta, fra l'altro, da apprezzabili collaborazioni con scrittori così diversi fra loro come Philip K. Dick, Fred Saberhagen e Robert Sheckley.

"Una rosa per le Ecclesiaste" è uno straordinario racconto incentrato sul tema del rinnovamento e si conferma una delle opere più significative firmate dall'artista.

 

I

 

Il mattino in cui mi giudicarono idoneo, ero impegnato a tradurre una delle mie Madrigali Macabre in marziano. L'interfono suonò e, con un solo movimento, lasciai cadere la matita e feci scattare la levetta.

— Signor G — disse il giovane Morton con la sua voce stridula da contralto — il vecchio mi ha ordinato di rintracciare immediatamente un non meglio identificato poetastro presuntuoso e di spedirlo nella sua cabina. E, poiché conosco soltanto un poetastro presuntuoso...

"Che l'ambizione non comprometta la tua utile fatica"lo interruppi.

E così, finalmente i marziani si erano decisi! Presi la sigaretta, ormai ridotta a un mozzicone e, dopo aver scrollato quattro centimetri di cenere nel posacenere, aspirai la prima boccata di fumo da quando l'avevo accesa. Di colpo avvertii tutta la tensione accumulata in quel lungo mese di attesa; ma avevo paura di percorre il chilometro o poco più che mi separava dalla cabina di Elmory e di sentirlo pronunciare le parole che già sapevo mi avrebbe rivolto: e, facendosi largo a gomitate, quella sensazione cacciò l'altra sullo sfondo.

Così completai la stanza che stavo traducendo prima di alzarmi.

Mi ritrovai davanti alla porta di Emory in un lampo. Bussai due volte poi aprii, proprio nel momento in cui lui ringhiava: — Avanti.

— Voleva vedermi? — Mi affrettai a sedermi per risparmiargli la fatica di invitarmi a farlo.

— Come ha fatto presto. Ha corso, forse?

Osservai la sua espressione di paterno scontento:

Piccoli granelli di grasso sotto gli occhi pallidi, capelli radi e un naso irlandese; una voce di un decibel superiore a quella di chiunque altro...

Amleto a Claudio: — Stavo lavorando.

— Ah! — sbuffò. — La pianti. Nessuno l'ha mai vista fare un accidente.

Io scrollai le spalle e accennai ad alzarmi.

— Se è per questo che mi ha mandato a chiamare...

— Si sieda!

Si alzò in piedi, fece il giro della scrivania, si fermò accanto a me, e mi fissò dall'alto della sua posizione con espressione furente (un trucco che difficilmente funziona con me, perfino quando sono seduto su una sedia bassa).

— Lei è senza dubbio il bastardo più ostinato e bastiancontrario con cui mi sia mai capitato di lavorare — muggì, come un bufalo pungolato sul ventre. — Perché ogni tanto non ci fa una bella sorpresa e si comporta come un essere umano? Sono disposto a riconoscere che lei è intelligente, forse è perfino un genio, ma... diavolo!

Alzò in alto le braccia e fece ritorno alla sua sedia.

— Betty è finalmente riuscita a convincerli a lasciarla entrare. La sua voce era di nuovo normale.La riceveranno questo pomeriggio. Dopo pranzo, prenda uno dei fuoristrada e vada laggiù.

— D'accordo — risposi.

— Bene, questo è tutto.

Annuii e mi alzai in piedi. Avevo già la mano sulla maniglia quando disse: — Non c'è bisogno che le ricordi quanto questa cosa sia importante. Veda di non trattarli come tratta noi.

Uscii dalla cabina e chiusi la porta.

 

Non ricordo che cosa mangiai a pranzo quel giorno. Ero teso, ma il mio istinto mi diceva che non avrei fallito. I miei editori di Boston si aspettavano un Idillio Marziano, o almeno un'opera alla Saint-Exupéry sul volo spaziale. L'Associazione Nazionale delle Scienze voleva una relazione completa sull'Ascesa e la Caduta dell'Impero Marziano.

Sarebbero rimasti entrambi soddisfatti, lo sapevo.

È questa la ragione per cui sono tutti così invidiosi... per cui mi odiano. Io ce la faccio sempre e meglio di chiunque altro.

Cacciai giù un'ultima montagnola di sbobba e mi avviai verso l'autorimessa, salii su uno dei fuoristrada e partii alla volta di Tirellian.

Fiamme di sabbia, piene di ossido di ferro, appiccarono fuoco al macinino. Guizzavano sopra la parte superiore aperta, e mi pungevano le guance attraverso la sciarpa; poi iniziarono a bucherellare i miei occhialini.

Ondeggiando e ansimando come il somaro a dorso del quale una volta ho attraversato l'Himalaya, la macchina divorava le dune di sabbia, mentre, in lontananza, si profilavano le Montagne di Tirellian.

All'improvviso mi ritrovai a procedere in salita e cambiai marcia in risposta ai ragli del motore. Quel deserto non era come il Gobi, non assomigliava nemmeno al Grande Deserto di Sud-Ovest, pensai. Era semplicemente rosso e morto... senza nemmeno un cactus.

Raggiunsi la cresta della collina, ma avevo sollevato troppa polvere per vedere ciò che mi aspettava oltre. Comunque, non aveva importanza, perché avevo tutte le carte geografiche stampate in testa. Puntai verso sinistra e scesi lungo quel versante dell'altura, adeguando la velocità della macchina. Un vento di traverso e il terreno compatto abbatterono le fiamme. Mi sentivo come Ulisse nell'inferno dantesco... con un discorso in terza rima in una mano e un occhio alla ricerca del sommo poeta.

Girai attorno a una pagoda di roccia e arrivai.

Appena mi scorse, Betty mi salutò. Io fermai la macchina e saltai giù.

— Ciao — dissi con voce soffocata, mentre srotolavo la sciarpa e mi scrollavo di dosso mezzo chilo di sabbia. — Dove devo andare, come e chi devo incontrare?

Lei si concesse una risatina tedesca, chiaramente divertita dall'ansia che tradiva la mia domanda concitata, poi iniziò a parlare (è una grande linguista, perciò scambiare qualche parola nell'Idioma del Village le fa ancora piacere!).

A me piace quel suo modo di esprimersi preciso ed essenziale. Osservai i suoi occhi, simili a due cioccolatini, i suoi denti perfetti, i suoi capelli schiariti dal sole e tagliati cortissimi (io odio le bionde!) e decisi che era innamorata di me.

— Signor Gallinger, la Matriarca la aspetta all'interno per fare la sua conoscenza. Ha accettato di aprire gli archivi del Tempio per consentirle di studiarli. — Tacque per un attimo, il tempo di toccarsi leggermente i capelli, come se fosse imbarazzata. Il mio sguardo l'aveva forse turbata?

— Si tratta di documenti di carattere religioso, che sono anche l'unica fonte della storia di questo popolo, una specie di Mahabharata — proseguì. — La Matriarca pretende che lei rispetti alcuni rituali mentre esamina i testi, come quello di ripetere le parole sacre ogni volta che gira una pagina... la Matriarca le spiegherà come fare.

Annuii più volte, con rapidi movimenti del capo.

— Bene. Entriamo.

— Mmm... — Betty tacque. — Non si dimentichi di osservare le Undici Forme di Educazione e di Rango. Loro ci tengono molto all'etichetta... e si ricordi che la parità fra i sessi non rientra nei loro argomenti di conversazione...

— So tutto dei loro tabù — la interruppe Gallinger. — Non si preoccupi, ho vissuto anch'io in Oriente.

Betty abbassò lo sguardo e mi prese per mano. Io la ritrassi bruscamente.

— Farà un'impressione migliore se sarò io a condurla dentro.

Ricacciai in gola i commenti che mi sorsero spontanei e la seguii, come Sansone a Gaza.

 

Quando varcammo la soglia del palazzo, mi stupii della natura stranamente profetica di quel mio ultimo pensiero. Sì, perché gli appartamenti della Matriarca erano una versione piuttosto astratta di quelle che, nelle mia immaginazione, dovevano essere state le tende delle tribù di Israele. Astratta, dico, perché la struttura di mattoni terminava a forma di punta, come se fosse una enorme tenda, ed era affrescata con disegni di pelli d'animale che parevano cicatrici grigio-azzurre e sembravano essere state realizzate con un mestichino.

La Matriarca, M'Cwyie, era bassa, canuta, sulla cinquantina e vestita come una regina degli zingari. Con il suo arcobaleno di gonne voluminose, sembrava una coppa da ponce capovolta e appoggiata su un cuscino.

Mentre le porgevo i miei ossequi, lei mi guardò come un gufo guarda un coniglio. Le sue palpebre, abbassate sulle pupille nere come il carbone, si sollevarono di scatto quando sentì il mio accento perfetto. Le interviste registrate da Betty mi erano state molto utili e inoltre avevo imparato a memoria gli studi sulla lingua marziana frutto delle prime due spedizioni. Io vado a nozze quando si tratta di imparare una lingua straniera.

— Siete un poeta? — mi domandò M'Cwyie.

— Sì — risposi.

— Recitate una delle vostre poesie, per favore.

— Mi dispiace, ma soltanto una traduzione accurata renderebbe giustizia alla vostra lingua e alla mia poesia, e io non conosco ancora abbastanza bene la vostra lingua.

— Eh?

— Ma ho tradotto in marziano alcuni dei miei versi, per mio diletto e come esercizio di grammatica — proseguii. — Sarei onorato di portarne alcuni in una delle mie prossime visite.

— Sì, portatele.

Un punto a mio favore!

La Matriarca si rivolse a Betty.

— Potete andare adesso.

Betty mormorò le formule del rito di commiato, mi lanciò una strana occhiata obliqua e scomparve. Evidentemente, era convinta di restare per "aiutarmi". Anche lei voleva la sua parte di gloria, come tutti. Ma ero io lo Schliemann di quella novella Troia e sulla relazione dell'Associazione ci sarebbe stato scritto un solo nome!

M'Cwyie si alzò e io mi resi conto che, nonostante ciò, aveva guadagnato assai poco in altezza. Per contro, io sono alto due metri e sembro un pioppo in ottobre: sottile, con una chioma rossa che svetta sopra quella di tutti gli altri.

I nostri testi sono molto, molto vecchi — disse la Matriarca. — Betty dice che nella vostra lingua la loro età è espressa dalla parola "millenni".

Annuii.

— Sono molto ansioso di vederli.

— Non sono qui. Dovremo andare al Tempio... non possono essere portati fuori dal Tempio.

Fui colto da un sospetto improvviso.

— Voi non avete obiezioni al fatto che io li copi, vero?

— No. Mi rendo conto che li rispettate, altrimenti il vostro desiderio non sarebbe tanto grande.

— Perfetto.

Sembrava divertita. Le chiesi che cosa trovasse tanto divertente.

— Non tutti gli stranieri imparano così facilmente la Lingua Alta.

Capii subito.

Durante la prima spedizione nessuno era riuscito ad arrivare dove ero arrivato io. Per questo non sapevo che su Marte esistessero due lingue, una classica e una volgare. Io conoscevo un po' del loro pracrito e adesso dovevo imparare tutto il loro sanscrito.

— Maledizione!

— Prego?

— È un'espressione intraducibile, M'Cwyie. Ma pensate di dover imparare la Lingua Alta in poco tempo e potrete facilmente immaginare che cosa provo.

Mi parve di nuovo divertita e mi disse di togliermi le scarpe.

Poi mi guidò attraverso un'alcova...

... verso un'esplosione di fulgore bizantino!

 

Nessun Terrestre aveva mai varcato la soglia di quella stanza prima di me, altrimenti io l'avrei saputo. Carter, il linguista della prima spedizione, aveva imparato, con l'aiuto di una certa Mary Alien, laureata in medicina, tutta la grammatica e i vocaboli che io conoscevo, restando seduto a gambe incrociate nell'anticamera del Palazzo.

Non avevamo idea dell'esistenza di quella stanza. Mi guardai attorno con voracità. Le decorazioni alle pareti erano ispirate a canoni estetici estremamente raffinati. Avremmo dovuto rivedere tutta la nostra valutazione della cultura marziana.

Per fare soltanto un esempio, il soffitto, a volta, era costruito in modo da formare un modiglione. Per non parlare delle colonne laterali con le scanalature rovesciate... Oh! La sala del Tempio era grande. Sontuosa. Chi l'avrebbe mai detto vedendo la mediocrità dell'esterno?

Mi chinai per osservare la filigrana dorata che ornava un tavolo cerimoniale. M'Cwyie sembrava compiaciuta dell'attenzione ammirata che stavo prestando a quei capolavori.

Il tavolo era ingombro di libri.

Con l'alluce seguii il disegno di un mosaico sul pavimento.

— Tutta la vostra città è racchiusa in questo palazzo?

— Sì. Arriva fino alla montagna.

— Capisco — dissi, senza capire affatto.

Non potevo chiederle di farmi da cicerone in una visita guidata, non ancora.

La Matriarca si diresse verso una piccola sedia accanto al tavolo.

— Vogliamo cominciare a introdurla alla Lingua Alta?

Io stavo cercando di fotografare la sala con gli occhi, sempre più deciso a chiedere, appena possibile, alla Matriarca, il permesso di entrare lì dentro con una telecamera. Distolsi a fatica lo sguardo da una statuetta e annuii con forza.

— Sì, ve ne prego.

Mi sedetti.

Nelle tre settimane che seguirono, ogni volta che chiudevo gli occhi per dormire, le lettere dell'alfabeto marziano si rincorrevano dietro le mie palpebre. E quando lasciavo vagare lo sguardo sulla volta celeste, lo stagno turchese e limpido del cielo si increspava di calligrafie. Mentre lavoravo bevevo litri di caffè e, nelle pause, cocktail di benzedrina e champagne.

M'Cwyie mi insegnava due ore al mattino e, di tanto in tanto, due ore anche alla sera. E non appena acquisii sufficiente dimestichezza con la lingua per poter continuare da solo, integrai le lezioni con quattordici ore di studio al giorno.

Poi, di notte, l'ascensore del tempo mi faceva precipitare ai primi piani...

 

Avevo di nuovo sei anni e studiavo l'ebraico, il greco, il latino e l'aramaico. Ed eccomi a dieci anni, mentre leggiucchiavo di nascosto l'Iliade. Quando Papà non era impegnato a predicare l'amore fraterno e ad ammonire contro le pene dell'inferno, mi insegnava a scoprire la Parola, così com'era in originale.

Ma, Dio Mio, ci sono così tanti originali e così tante parole! All'età di dodici anni cominciai a fargli notare le piccole differenze fra quello che lui predicava e quello che io leggevo.

Il vigore fondamentalista delle sue risposte non ammetteva discussioni. Era peggiore di qualsiasi punizione corporale. Da quel giorno imparai a tenere la bocca chiusa e ad apprezzare la poesia del vecchio testamento.

Quando il ragazzo si diplomò con il massimo dei voti in francese, tedesco, spagnolo e latino, Papà Gallinger gli disse che voleva fare di lui un predicatore. Ricordo ancora la risposta evasiva di quello spaventapasseri di suo figlio, già alto un metro e ottanta nonostante i suoi quattordici anni:

— Signore — gli aveva detto — preferirei studiare per un anno per conto mio e poi iscrivermi a qualche corso propedeutico alla facoltà di teologia all'università. Mi sento ancora troppo giovane per entrare in seminario.

La Voce di Dio: — Ma tu hai il dono delle lingue, figlio mio. Puoi annunciare la Buona Novella in tutte le terre di Babele. Tu sei nato per fare il missionario. Tu dici di essere giovane, ma ricorda che cosa dice il salmo: "il tempo passa e noi ci dileguiamo". Comincia presto affinché più numerosi siano i tuoi anni al servizio di Dio.

E il maggior numero di anni che avrei potuto spendere al servizio di Dio si traducevano nel crescente numero di frustate che si abbattevano sulla mia schiena. Oggi non riesco a vedere la sua faccia; non ci riesco mai. Forse è perché allora avevo tanta paura di guardarla.

E anni dopo, quando morì e il suo corpo, vestito di nero, fu composto nella bara, fra mazzi di fiori, congregazionalisti in lacrime, preghiere, facce rosse, fazzoletti, parole di conforto bisbigliate al mio indirizzo... io lo guardai e non lo riconobbi.

Ci eravamo incontrati nove mesi prima della mia nascita, quello sconosciuto e io. Non era mai stato crudele: severo sì, esigente, pieno di disprezzo di fronte alle manchevolezze di chiunque, ma mai crudele. Mi aveva fatto da padre e madre, da fratello e da sorella. Aveva tollerato i tre anni che trascorsi al St. John, forse grazie al nome del santo, senza mai sapere che posto liberale e meraviglioso fosse.

Ma io non l'avevo mai conosciuto e l'uomo su quel catafalco non pretendeva più niente ormai: ero libero di non predicare la Parola. Ma adesso io volevo farlo, anche se in un modo diverso. Volevo predicare una parola alla quale non avrei mai potuto dar voce finché lui era vivo.

L'autunno successivo non mi iscrissi all'ultimo anno di corso. Mio padre mi aveva lasciato una piccola eredità e, superate alcune iniziali difficoltà per entrarne in possesso, non avendo io ancora compiuto i diciotto anni, alla fine decisi di stabilirmi al Greenwich Village.

Non comunicai a nessuno dei parrocchiani di mio padre il mio nuovo indirizzo e, da quel giorno, mi dedicai alla poesia e allo studio del giapponese e dell'indostano. Mi feci crescere la barba, cominciai a bere caffè espresso e imparai a giocare a scacchi. Volevo tentare una strada diversa verso la salvezza.

In seguito, trascorsi due anni in India con i Vecchi Corpi di Pace, un'esperienza che mi allontanò dal buddismo e mi ispirò i Canti a Krishna,la raccolta di poesie che mi fece vincere il premio Pulitzer.

Poi, il ritorno negli Stati Uniti, la laurea, il dottorato in linguistica e altri premi.

E infine, un giorno, un'astronave partì alla volta di Marte e, quando ritornò sulla Terra, portò con sé il mistero di una lingua sconosciuta. Quando imparai tutto quello che c'era da sapere su quel nuovo idioma ed ebbi scritto un libro, divenni famoso in nuovi ambienti:

"Va', Gallinger. Immergi il tuo secchio nel pozzo e tira su acqua di Marte. Va', conosci un altro mondo - ma resta distaccato, inveisci gentilmente contro di esso, come Auden — e tramandaci la sua anima in giambi".

Così giunsi nella terra dove il sole è una monetina annerita, dove il vento è una sferzata, dove due lune si contendono il cielo e una sabbia d'inferno ti brucia la pelle soltanto a guardarla.

 

Mi alzai dalla cuccetta nella quale mi stavo rigirando e attraversai la cabina immersa nel buio, diretto al finestrino. Il deserto era un tappeto di arancione infinito, sotto il quale, nei secoli, il vento aveva spazzato la sabbia, formando una schiera di dune.

— Io, intrepido terrestre alla conquista di questa terra celeste!

Risi.

Ormai mi ero impadronito della Lingua Alta e la parlavo correttamente.

La Lingua Alta e quella Bassa non erano così diverse fra loro come mi era sembrato all'inizio. Conoscevo abbastanza bene l'una per addentrarmi nel regno più tenebroso dell'altra. Avevo già trascritto le regole di grammatica e i verbi irregolari più comuni; il vocabolario che stavo redigendo cresceva di giorno in giorno, come un tulipano che entro breve sarebbe fiorito.

Adesso era giunto il momento di mettere alla prova il mio ingegno, di mettere a frutto le mie faticose ore di studio. Avevo evitato di proposito di leggere i testi più importanti fino a quando non fossi stato in grado di affrontarli con la dovuta preparazione. Fino ad allora, perciò, mi ero limitato a studiare commentari minori, frammenti di poesia, brani di storia. In tutto quello che avevo letto, una cosa mi aveva colpito profondamente: nei loro scritti, i marziani parlavano di cose concrete: pietre, sabbia, acqua, vento, simboli della natura attraverso i quali esprimevano un atteggiamento estremamente pessimistico nei confronti della realtà. In questo senso, quelle opere mi ricordavano alcuni testi buddisti, ma ancor di più, alcuni libri del Vecchio Testamento. In particolare il Libro delle Ecclesiaste.

Perciò scelsi quello. Il sentimento che lo animava, oltre alle parole, era così simile a quello dei testi marziani che avrebbe costituito un esercizio perfetto. Come tradurre Poe in francese. Io non mi sarei mai convertito alla Via di Malann, ma avrei dimostrato agli abitanti di Marte che, in un tempo lontano, un Terrestre aveva pensato le stesse cose, provato gli stessi sentimenti dei loro più grandi profeti.

Accesi la lampada da tavolo e, fra i miei libri, cercai la Bibbia.

Vanità delle vanità, dice Cohelet, vanità delle vanità, il tutto è vanità. Che resta all'uomo...

 

M'Cwyie sembrava sbalordita dai miei progressi. Seduta dalla parte opposta del tavolo, mi scrutava, come l'Altro di Sartre. Diedi una scorsa a un capitolo del Libro di Locar. Non sollevai lo sguardo, ma sentii ugualmente la rete che i suoi occhi stavano tessendo attorno alla mia testa, alle mie spalle e alle mie mani che si muovevano rapide. Voltai un'altra pagina.

Stava soppesando la rete per valutare la grandeza del pesce che aveva catturato? Perché? I libri non parlavano di pescatori su Marte. Soprattutto di uomini. Narravano che un certo Dio di nome Malann aveva sputato, o fatto qualcosa di disgustoso (a seconda delle versione) e che la vita si era formata come una malattia nella materia inorganica. Dicevano che il movimento era la sua prima legge e che la danza era la sola legittima risposta alla... la qualità della danza la sua giustificazione... e che l'amore è una malattia della materia inorganica... Materia inorganica?

Scossi la testa. Stavo per addormentarmi.

— M'narra.

Mi alzai e mi stirai. Gli occhi della Matriarca mi scrutarono avidamente. Perciò io la guardai e lei abbassò lo sguardo.

— Sono stanco. Voglio riposarmi un po'. Non ho dormito molto questa notte.

Lei fece un cenno di assenso, come aveva imparato da me.

— Desiderate rilassarvi e contemplare la chiarezza della dottrina di Locar nella sua pienezza?

— Prego?

— Desiderate vedere una Danza di Locar?

— Ah! — Il marziano aveva strutture perifrastiche più involute del coreano! — Sì, con piacere. Quando riterrete che sia giunto il momento, sarò lieto di assistere a una danza. Nel frattempo — proseguii — avevo intenzione di chiedervi se fosse possibile scattare alcune fotografie...

— Il momento è giunto — disse M'Cwyie. — Sedetevi e riposatevi, mentre io chiamo i musicisti.

Detto questo uscì frettolosamente dalla sala attraverso una porta che io non avevo mai varcato.

Bene, la danza era la forma più alta di arte secondo Locar, per non nominare Havelock Ellis, e io stavo per vedere in che modo, secondo il filosofo marziano, morto secoli prima, andasse interpretata. Per alleviare i sintomi della stanchezza, mi sfregai gli occhi e feci alcuni piegamenti in avanti, toccandomi la punta dei piedi con le mani.

Quando mi sentii pulsare la testa, mi fermai e trassi due profondi respiri. Poi feci un'altra flessione e, proprio in quel momento, sentii un rumore di passi alla porta.

Il trio che entrò al seguito di M'Cwyie dovette credere che stessi cercando le biglie che avevo appena perso, vedendomi chinato in quel modo.

Rivolsi loro un debole sorriso e mi drizzai, rosso in viso, e non solo per lo sforzo. Non mi aspettavo di vederli arrivare così presto.

All'improvviso pensai di nuovo ad Havelock Ellis nel suo periodo di massimo successo.

Una ragazza dai capelli rossi, che indossava, a mo' di sari, un pezzo di cielo marziano, sollevò lo sguardo stupita... come un bambino di fronte a una bandiera colorata in cima a un pennone.

— Buongiorno — dissi, o il suo equivalente nella lingua marziana.

Lei si inchinò prima di rispondermi. Evidentemente ero stato promosso di rango.

Ora danzerò — annunciò la ferita rossa nel pallido, pallidissimo cammeo del suo viso. I suoi occhi, del colore dei sogni e del suo vestito, si staccarono dai miei.

La ragazza raggiunse lentamente il centro della stanza.

Lì rimase immobile, come una figura su un fregio etrusco, come se stesse meditando o osservando il decoro del pavimento.

Il mosaico simboleggiava qualcosa? Lo studiai. Se era così, il suo significato mi sfuggiva: personalmente lo ritenevo un bel pavimento per un bagno o per un patio, ma niente di più.

Gli altri due membri del trio erano donne di mezza età, appassite come M'Cwyie. Una si sistemò sul pavimento con uno strumento a tre corde che assomigliava vagamente a un samisen. L'altra reggeva un semplice blocco di legno e due bastoncini.

M'Cwyie disdegnò la seggiola e, prima che io me ne rendessi conto, si sedette sul pavimento. Io mi affrettai a imitarla.

La suonatrice di samisen stava ancora accordando lo strumento e io ne approfittai per rivolgere una domanda alla Matriarca.

— Come si chiama la danzatrice?

— Braxa — mi rispose senza guardarmi, poi alzò lentamente la mano sinistra, un gesto che significava "sì", "andate avanti" e "che abbia inizio".

Lo strumento a corda pulsava come un dente malato, mentre dal blocco di legno proveniva un tic tac che faceva pensare ai fantasmi di tutti gli orologi che non avevano mai inventato.

Braxa era una statua, entrambe le mani a coprire il volto, i gomiti alti, sopra le spalle.

La musica divenne una metafora del fuoco.

Crac, sss, pop...

La ragazza rimase immobile.

Il sibilo del fuoco si trasformò in uno sciacquio. Il ritmo rallentò. Era l'acqua adesso, il bene più prezioso del mondo, che gorgogliava trasparente e poi verde sopra i sassi coperti di muschio.

E Braxa continuava a restare immobile.

Glissando. Pausa.

Poi, così flebile che sulle prime dubitai quasi di udirli, si levò il tremito del vento. Delicato, gentile, sospiroso ed esitante. Una pausa, un singhiozzo e poi la ripresa del primo tema, solo un po' più forte.

Le ore di lettura mi avevano completamente rovinato la vista, o Braxa stava realmente tremando?

Non mi ingannavo, Braxa tremava.

Poi iniziò a ondeggiare impercettibilmente: una frazione di centimetro verso destra, una frazione di centimetro verso sinistra. Le sue dita si aprirono come i petali di un fiore, scoprendo le palpebre abbassate. Dopo qualche secondo, anche queste si schiusero. Gli occhi della danzatrice erano lontani, vitrei, guardavano oltre il mio corpo, oltre il muro. Poi il ritmo della sua danza aumentò e si fuse con quello degli strumenti.

Il vento spazzava il deserto adesso e si abbatteva su Tirellian come onde contro il muro di una diga. Le dita di Braxa si muovevano, erano le raffiche di vento. Come pendoli lenti, le sue braccia si abbassarono e iniziarono a muoversi in senso contrario.

Stava per levarsi un vento fortissimo. Il corpo della danzatrice incominciò a vibrare tutto e anche le sue mani si adeguarono al nuovo ritmo. Poi, all'improvviso, le sue spalle iniziarono a dimenarsi, ma con regolarità, descrivendo una specie di otto.

Il vento! Il vento, vi dico. O selvaggio, enigmatico! O musa di San Giovanni Perse!

Il ciclone infuriava attorno a quegli occhi, che ne costituivano il centro immobile. Braxa aveva rovesciato la testa all"indietro, ma io sapevo che non esisteva soffitto fra il suo sguardo, passivo come quello di Budda, e i cieli sempre uguali. Forse, soltanto le due lune interrompevano il loro sonno in quel Nirvana elementare di turchese disabitato.

Anni prima avevo visto in India le Devadasi, le danzatrici ambulanti, che tessevano le loro reti multicolori per attirarvi l'insetto maschio. Ma Braxa le superava: era una Ramadjany, una danzatrice sacra, come le sacerdotesse di Rama, incarnazione di Visnu, che aveva fatto dono all'uomo della danza.

Le percussioni si susseguivano sempre uguali adesso, e il gemito delle corde mi faceva pensare ai raggi pungenti del sole, a cui gli aloni del vento sottraevano calore: l'azzurro era Savarasti e Maria e una fanciulla di nome Laura. Sentii giungere da qualche parte il suono di un liuto indiano, guardai quella statua prendere vita e inspirai un afflato divino.

Ero nuovamente Rimbaud con il suo hashish, Baudelaire con il suo laudano, Poe, de Quincey, Wilde, Mallarmé e Alistrair Crowley. Per una frazione di secondo fui mio padre sul suo pulpito scuro, avvolto dalla tonaca ancora più scura, gli inni e l'ansito dell'organo trasmutati in vento vivace.

Braxa era una banderuola segnavento che girava, un crocifisso alato che si librava in aria, un filo del bucato da cui pendeva un indumento colorato che il vento teneva parallelo al terreno. Aveva le spalle scoperte adesso: il suo seno destro si alzava e si abbassava come una luna nel cielo e il capezzolo rosso faceva capolino per un istante sopra una piega per poi scomparire di nuovo. La musica era formale come la discussione fra Giobbe e Dio e la danza di Braxa era la risposta di Dio.

Il ritmo della musica rallentò, si stabilizzò. Come se fosse dotato di vita propria, l'abito della danzatrice ritrovò la cadenza più composta delle increspature originarie.

La ragazza si lasciò cadere lentamente sul pavimento. Portò le ginocchia al petto e chinò la testa. Poi restò immobile.

Calò il silenzio.

 

Dal dolore alle spalle mi resi conto della tensione con cui avevo seguito la danza. Ero bagnato sotto le ascelle e rivoli di sudore mi correvano lungo i fianchi. Che cosa si faceva adesso? Si applaudiva?

Sbirciai M'Cwyie con la coda dell'occhio. Lei sollevò la mano destra.

Come per telepatia, la ragazza fu scossa da un brivido e si alzò in piedi. Anche l'altra donna seduta si levò e, dopo di lei, anche la Matriarca.

Mi alzai a mia volta, con la gamba sinistra intorpidita e dissi, "È stato meraviglioso", per quanto un simile commento possa suonare stupido.

Ricevetti tre diverse forme alte di "grazie".

Poi con un turbinio di colori, il trio scomparve e io mi ritrovai nuovamente da solo con M'Cwyie.

— Quella era la centodiciassettesima delle duemiladuecentoventiquattro danze di Locar.

Io la guardai.

Che avesse torto o ragione Locar aveva elaborato una bella risposta all'inorganico.

La Matriarca sorrise.

— Le vostre danze assomigliano a questa?

— Alcune sì, sono simili e l'esecuzione di Braxa me le ha fatte ricordare... ma non avevo mai visto niente del genere.

— Braxa è brava — osservò M'Cwyie. — Conosce tutte le danze.

Un accenno di quella sua espressione di poco prima che mi aveva confuso...

Scomparve subito.

I miei doveri mi chiamano. — La Matriarca si avvicinò al tavolo e chiuse i libri. — M'narra.

— Arrivederci. — Mi infilai gli stivali.

— Arrivederci, Gallinger.

Uscii dal tempio, salii sul fuoristrada e attraversai rombando la notte, sollevando ali di sabbia al mio passaggio.

 

II

 

Avevo appena chiuso la porta della mia cabina, dopo essermi accomiatato da Betty al termine di una breve lezione di grammatica, quando udii alcune voci in corridoio. L'oblò interno era socchiuso, così ne approfittai per origliare.

La voce da contralto di Morton : — Lo sai? Poco fa mi ha detto "salve".

— Uff! — esplosero i polmoni da elefante di Emory. — O si è sbagliato o tu gli bloccavi la strada e lui voleva che.ti spostassi.

— Forse non mi ha riconosciuto. Non credo che dorma più adesso che ha la possibilità di trastullarsi con questa nuova lingua. La settimana scorsa ho fatto la guardia notturna, e ogni notte, quando passavo davanti alla sua cabina alle tre, sentivo il registratore in funzione. E alle cinque, quando smontavo, stava ancora lavorando.

— In effetti lavora sodo — ammise Emory a malincuore. — Credo che prenda addirittura qualche droga per restare sveglio. Ha gli occhi vitrei in questi giorni, anche se forse è normale per un poeta.

Anche Betty aveva assistito a quella conversazione, perché interruppe i due uomini dicendo:

— Nonostante quello che voi pensate di lui, a me ci vorrà un anno per imparare quello che lui ha appreso in tre settimane. E io sono una linguista, non una poetessa.

Morton doveva nutrire una cotta segreta per lei, altrimenti non saprei spiegarmi come mai depose improvvisamente le armi e disse quello che disse.

— Quando ero all'università ho frequentato un corso di poesia moderna — dichiarò. — Studiammo sei autori, Yeats, Pound, Eliot, Crane, Stevens e Gallinger, e alla fine del semestre, con tono un po' retorico, il prof. disse: "I nomi di questi sei poeti sono iscritti nella storia del novecento e i cancelli della critica e dell'inferno non prevarranno su di essi".

— Io, personalmente — proseguì — pensavo che i suoi Canti a Krishna e le sue Madrigali fossero eccezionali, e ho avuto l'onore di essere selezionato per una spedizione a cui partecipava anche lui.

— Credo che mi abbia rivolto una decina di parole da quando l'ho conosciuto — concluse.

La Difesa: — Non le è mai venuto in mente — disse Betty — che possa essere timido? È stato un bambino molto precoce e probabilmente non ha avuto molti amici. È un uomo sensibile e molto introverso.

— Sensibile? Timido? — Emory soffocò una risata. — Quell'uomo è orgoglioso come Lucifero ed è una macchina per insulti ambulante. Tu schiacci un pulsante con su scritto "Salve" o "Buona giornata" e Gallinger ti fa marameo. Ormai per lui è un riflesso condizionato.

I due uomini mormorarono qualche altra piacevolezza al mio indirizzo e poi si allontanarono.

Bene, che Dio ti benedica, giovane Morton, con la tua faccia piena di brufoli! Io non ho mai frequentato un corso dedicato alla mia poesia, ma sono contento che qualcuno abbia tanta considerazione di me: i cancelli dell'inferno... Chissà, forse le preghiere di mio padre sono state ascoltate e, alla fine, sono diventato un missionario!

Ma...

... Ma un missionario converte la gente a qualcosa! Io ho una mia etica personale, che presumo, in un modo o nell'altro, produca una specie di scoria etica. Ma se avessi davvero qualcosa da predicare, anche attraverso le mie poesie, non mi interesserebbe farlo sapere a voi, forme di vita inferiori! Se pensate che io sia uno zoticone, sappiate che sono anche snob e che non c'è posto per voi nel mio Paradiso: è un luogo privato, dove vengono a cena Swift, Shaw e Petronio Arbitro.

E che banchetti facciamo! Come ti spolpiamo i Trimalcioni e gli Emory!

E per quanto riguarda te, Morton, ti finiamo con la zuppa!

Mi allontanai e mi sedetti alla scrivania. Volevo scrivere qualcosa. Le Ecclesiaste potevano prendersi una notte di libertà. Volevo comporre una poesia, una poesia sulla centodiciassettesima danza di Locar: su una rosa, che segue la luce, sferzata dal vento, malata, come la rosa di Blake, morente...

Trovai una matita e iniziai a scrivere.

Quando finii ero soddisfatto. Non era niente di eccezionale, non essendo l'Alto Marziano la lingua che dominavo meglio. La tradussi in inglese con rime parziali. Forse l'avrei inserita nella mia prossima raccolta. La intitolai Braxa:

 

In una terra di vento e di rosso dove la rigida sera del Tempo fa ghiacciare il latte nei seni della Vita, mentre due lune in cielo - cane e gatto in stretti passaggi di sogno - si azzuffano per l'eternità

 

Questo ultimo fiore volge il capo di fuoco.

 

La riposi in un cassetto e trangugiai alcune compresse di fenobarbital. Fui subito vinto dalla stanchezza.

Quando l'indomani mostrai la poesia a M'Cwyie, lei la lesse diverse volte, molto lentamente.

— È bella — disse alla fine. — Ma avete usato tre parole che appartengono alla vostra lingua. "Cane" e "gatto" presumo siano due piccoli animali che si odiano. Ma che cos'è un "fiore"?

— Oh — dissi. — Non ho ancora scoperto l'equivalente marziano di "fiore", ma pensavo a un particolare fiore terrestre, la rosa.

— Come è fatta?

— Normalmente, ha petali di un colore rosso intenso. È a questo che, a un primo livello, si riferisce il "capo di fuoco". Ma volevo anche alludere alla febbre, ai capelli rossi e al fuoco della vita. La rosa, in sé, ha uno stelo con spine, foglie verdi e un profumo particolare e gradevole.

— Mi piacerebbe vederne una.

— Vedrò che cosa si può fare, ma penso che sia possibile.

— Ve ne prego. Voi siete un... — Usò la parola "profeta" o poeta religioso, come Isaia o Locar.

Io mi schermii, ma mi sentii lusingato.

Quello, decisi in quel momento, era il giorno ideale in cui chiedere alla Matriarca il permesso di portare all'interno del tempio la macchina per il microfilm e la telecamera. Volevo copiare tutti i loro testi, le spiegai, e non riuscivo a scrivere così in fretta da poterlo fare a mano.

Lei mi sorprese, acconsentendo subito. Ma il suo invito mi sconcertò.

— Vi piacerebbe trasferirvi qui mentre portate a termine il vostro lavoro? In questo modo potreste effettuare le riprese sia in qualsiasi momento del giorno o della notte, tranne durante le funzioni, naturalmente.

Mi inchinai.

— Ne sarei onorato.

— Bene. Portate qui le vostre macchine quando desiderate e io vi farò vedere la stanza dove alloggerete.

— Questo pomeriggio potrebbe andare bene?

— Senz'altro.

— Allora parto subito, in modo da preparare i miei bagagli. Arrivederci a questo pomeriggio...

— Arrivederci.

 

Prevedevo qualche obiezione da parte di Emory, ma non molte. Tutti sulla nave erano ansiosi di vedere i marziani, di infilzarli di aghi, di acquisire informazioni sul clima del pianeta, sulle malattie, sulla composizione chimica del terreno, sui funghi che vi crescevano (il botanico al seguito della nostra spedizione aveva il pallino dei funghi, ma nel complesso era un bravo ragazzo) sulla politica del governo... e solo quattro o cinque persone erano finora riuscite ad avvicinarli. L'equipaggio aveva trascorso gran parte del tempo eseguendo scavi in città morte e nelle loro acropoli. Le regole del gioco erano estremamente severe e gli indigeni avevano uno spirito insulare paragonabile a quello dei giapponesi del diciannovesimo secolo. Per questo, prevedevo di incontrare poca resistenza e così fu.

Anzi, ebbi la netta impressione che fossero tutti contenti di vedermi andare via.

Mi fermai nella stanza riservata all'idroponica per parlare con il nostro esperto di funghi.

— Ciao, Kane. Allora, sei riuscito a far crescere qualche fungo velenoso nella sabbia?

Lui inspirò rumorosamente. Lo fa sempre. Forse è allergico alle piante.

— Salve, Gallinger. No, finora con i funghi velenosi non ho avuto successo, ma la prossima volta che esci dà un'occhiata dietro il garage. Sono riuscito a far crescere alcuni cactus.

— Fantastico — commentai. Doc Kane era praticamente l'unico amico che avessi a bordo, a parte Betty.

— Senti, sono venuto a chiederti un favore.

— Spara.

— Mi serve una rosa.

— Che cosa?

— Una rosa. Sai, una bella American Beauty rossa, con le spine e profumata...

— Non penso che attecchisca in questo suolo.

— No, non hai capito. Non voglio che tu la faccia crescere su Marte. A me basta un fiore solo.

— Dovrei usare le cisterne. — Si grattò la testa in corrispondenza dell'attaccatura dei capelli. — Ci vorranno almeno tre mesi per far crescere una rosa, anche con la coltivazione forzata.

— Mi farai questo favore?

— Sì, se per te aspettare non è un problema...

— Nessun problema. Dovremo restare qui non meno di altri tre mesi, prima di ritornare sulla Terra. — Diedi un'occhiata alle vasche coperte di fango liquido e ai vassoi pieni di getti. — Oggi mi trasferisco a Tirellian, ma continuerò ad andare e venire, perciò sarò qui quando la rosa fiorirà.

— Ah, vai a stare là? Questo significa che li hai conquistati... Moore dice che sono un popolo molto chiuso e diffidente.

— A quanto pare, mi considerano uno di loro.

— A quanto pare... Comunque continuo a non capire come tu abbia fatto a imparare la loro lingua. Certo, io non sono la persona più adatta per esprimere un giudizio, visto che all'università ho dovuto sudare le classiche sette camice per imparare il tedesco e il francese, ma l'altro giorno, a pranzo Betty ci ha fornito un saggio di marziano e a me è sembrato una accozzaglia di suoni impronunciabili.

Io risi e accettai la sigaretta che mi offriva.

— È una lingua complicata — riconobbi. — Ma è come se tu qui scoprissi una nuova classe di miceti... te li sogneresti anche di notte.

I suoi occhi si illuminarono.

— Non sarebbe fantastico? Chissà, potrebbe anche succedere.

— Perché no?

Kane ridacchiò mentre mi accompagnava alla porta.

— Comincerò a coltivare le tue rose questa sera. Non lavorare troppo laggiù, mi raccomando.

— D'accordo. E mille grazie.

Come dicevo, Doc Kane ha la mania dei funghi, ma è un bravo ragazzo. L'appartamento che mi fu assegnato nella Cittadella di Tirellian era adiacente al Tempio. Era un alloggio decisamente più ampio e confortevole rispetto alla cabina angusta dell'astronave, e mi rallegrai ancor di più quando appurai che i marziani avevano scoperto la comodità del materasso sopra il giaciglio. Inoltre, con mia grande sorpresa, mi accorsi che il letto era abbastanza lungo da permettermi di distendermi completamente.

Disfeci i bagagli e feci alcune riprese del Tempio, prima di cominciare a filmare i libri.

Scattai fotografie fino a quando non ne potei più di girare pagine senza capire che cosa ci fosse scritto sopra. A quel punto iniziai a tradurre un testo di storia.

"Ecco. Nel trentasettesimo anno del Processo di Cillen caddero le piogge, che portarono letizia, perché si trattava di evento raro e comunemente interpretato come una grazia.

"Ma non era il seme generatore di vita di Malann, che cadeva dal cielo. Era il sangue dell'universo, che scaturiva da un'arteria. La fine del tempo era prossima. Doveva iniziare l'ultima danza.

"Le piogge portarono il flagello che non uccide..."

Mi domandai che cosa diavolo intendesse dire Tamur, dal momento che era uno storico e, come tale, si presumeva che dovesse attenersi ai fatti. Quella non era la loro apocalisse.

A meno che loro non fossero gli stessi...?

Perché no? Riflettei. I pochi abitanti di Tirellian erano gli ultimi rappresentanti di quella che un tempo doveva essere stata una civiltà altamente progredita. Avevano conosciuto le guerre, ma nessun olocausto; la scienza, ma poca tecnologia. Un flagello che non uccideva...? Era possibile che si trattasse di quello che pensavo? Ma come, se non era fatale?

Continuai a leggere, ma l'autore non specificava la natura dell'epidemia. Scorsi molte pagine, ne saltai altre, ma non trovai nessuna risposta alla mia domanda.

M'Cwyie! M'Cwyie! Perché quando ho più bisogno di te, tu non ci sei mai?!

Sarebbe stato sconveniente andare a cercarla? Sì, decisi alla fine. Io ero confinato nelle stanze che mi erano state assegnate, questo era ciò che era stato tacitamente convenuto. Avrei dovuto aspettare per soddisfare la mia curiosità.

Perciò mi limitai a imprecare a lungo e ad alta voce, in molte lingue, facendo indubbiamente fischiare le sacre orecchie a Malann, proprio lì nel suo Tempio.

Ma lui non ritenne opportuno colpirmi con il suo fulmine, così decisi di sospendere il lavoro e di andare a dormire.

 

Dovevano essere trascorse molte ore quando Braxa entrò nella mia stanza, reggendo in mano una piccola lampada. Mi svegliò tirandomi per la manica del pigiama.

La salutai. Ripensandoci, non c'era molto altro che le potessi dire.

— Salve.

— Sono venuta per sentire la poesia — mi disse lei.

— Quale poesia?

— La vostra.

— Ah.

Sbadigliai, mi drizzai a sedere e reagii come avrebbe reagito chiunque fosse stato svegliato nel cuore della notte per declamare versi.

— È molto gentile da parte vostra, ma non è un'ora un po' ingrata?

— A me non importa — mi rispose lei.

Un giorno ho intenzione di scrivere un articolo sulla Rivista di semantica,intitolato: "Il tono della voce: un veicolo insufficiente per esprimere ironia".

Comunque, essendo ormai sveglio, allungai una mano e presi la vestaglia.

— Che genere di animale è quello? — mi domandò Braxa indicando il drago di seta sul risvolto.

— Mitico — risposi io. — Ascoltate, è molto tardi e sono stanco. Mi aspetta una dura giornata di lavoro domani. E poi, se M'Cwyie venisse a sapere che vi trovate qui potrebbe farsi delle idee sbagliate.

— Idee sbagliate?

— Sapete benissimo che cosa intendo dire, accidenti! — Era la prima volta che avevo occasione di imprecare in marziano, ma Braxa non si scompose.

— No — mi rispose — non lo so.

Sembrava spaventata, come un cucciolo che viene sgridato senza sapere che cosa abbia fatto di male.

Mi calmai. Il suo mantello era dello stesso identico colore dei suoi capelli e delle sue labbra, e quelle labbra tremavano.

— Vi chiedo scusa, non intendevo turbarvi. Nel mio mondo esistono alcuni... costumi, riguardo alle persone di sesso diverso che si trovano da sole in una camera da letto senza essere unite in matrimonio... Intendo dire... Capite che cosa intendo dire?

— No.

I suoi occhi erano perle di giada.

— Be' è una specie di... È il sesso, in parole povere.

Una luce si accese in quelle lampade di giada.

— Ah! Intendete dire avere bambini!

— Sì, esattamente! Proprio così.

Braxa rise. Era la prima volta che sentivo ridere qualcuno a Tirellian. Era come se un violinista toccasse con l'archetto le corde più alte, eseguendo tante piccole variazioni. Nel complesso non era un suono piacevole, soprattutto perché Braxa rise troppo a lungo. Alla fine mi si avvicinò.

— Adesso ricordo — disse. — Anche noi un tempo avevamo regole simili: mezzo Processo fa, quando io ero piccola. Ma... — sembrava sul punto di scoppiare a ridere un'altra volta — adesso non sono più necessarie.

La mia mente stava elaborando i dati come un registratore che giri a velocità tripla.

Mezzo Processo! Mezzo Processo! No! Sì! Mezzo processo erano duecentoquarantatré anni, circa!

Un tempo sufficiente per imparare le 2224 danze di Locar.

Un tempo sufficiente per diventare decrepito, se eri un essere umano.

Un terrestre, intendo.

La guardai di nuovo: era pallida come la regina bianca in un set da scacchi d'avorio.

Braxa era umana, ero pronto a scommetterci la mia anima. Era viva, normale, piena di salute. Ero pronto a scommetterci la vita: era una donna.

Ma aveva anche due secoli e mezzo, il che significava che, al suo confronto M'Cwyie era la nonna di Matusalemme. Mi sentii lusingato al ricordo dei loro ripetuti complimenti per le mie capacità di linguista e di poeta. Proprio da parte di creature così superiori!

Ma che cosa intendeva dire con "adesso non sono più necessarie"? Perché quella risata quasi isterica? E che cosa significavano quegli strani sguardi che continuava a scoccarmi M'Cwyie?

All'improvviso mi resi conto di essere vicino a una scoperta importante, oltre che a una bella ragazza.

— Ditemi — ripresi con il mio Tono Noncurante — questo c'entra qualcosa con "il flagello che non uccide" di cui parla Tamur?

— Sì — mi rispose — i bambini nati dopo le Piogge non erano in grado di avere figli propri, e...

— E cosa? — Ero proteso in avanti, con la mente pronta a registrare ogni sua parola.

— ...e gli uomini non avevano alcun desiderio di procreare.

Mi appoggiai lentamente contro la colonna del letto. Sterilità e impotenza, verificatisi in seguito a uno straordinario fenomeno meteorologico. Era possibile che un giorno una nube radioattiva proveniente da Dio sa dove fosse penetrata nella loro debole atmosfera. Molto tempo prima che Schiaparelli scoprisse i canali di Marte, mitici come il drago ricamato sulla mia vestaglia, e prima che quei canali permettessero di elaborare alcune ipotesi corrette per le ragioni più sbagliate, Braxa era viva e danzava; era già condannata nel grembo materno quando Milton scriveva di un altro paradiso, ugualmente perduto...

Accesi una sigaretta. Meno male che mi ero portato dietro qualche posacenere. Su Marte non esisteva una manifattura di tabacchi. E neanche una fabbrica di alcolici, se per questo. Gli asceti che avevo conosciuto in India erano seguaci di Dioniso al confronto dei marziani.

— Che cos'è quel tubo di fuoco?

— Una sigaretta. Ne desiderate una?

— Sì, grazie.

Si sedette accanto a me e io gliela accesi.

— Irrita il naso.

— Sì. Inspirate una boccata di fumo nei polmoni, trattenetela alcuni istanti e poi espirate.

Trascorse un istante.

— Ohh — esclamò.

Un attimo di silenzio e poi. — È sacro?

— No, è nicotina — risposi — una forma molto succedanea di divinità.

Un'altra pausa.

— A volte provo questa stessa sensazione quando danzo.

— Fra un attimo passerà.

— Recitatemi la vostra poesia.

Mi venne un'idea.

— Aspettate un attimo — dissi. — Forse ho qualcosa di meglio.

Mi alzai, rovistai fra i miei blocchi per appunti, poi ritornai a sedere accanto a lei.

— Questi sono i primi tre capitoli del Libro delle Ecclesiaste — le spiegai. — È molto simile ai vostri testi sacri.

Iniziai a leggere.

Ma quando stavo per attaccare il dodicesimo verso lei mi interruppe esclamando: — Vi prego, non leggete questo! Leggetemi qualcosa di vostro!

Chiusi il bloc-notes e lo lanciai su un tavolo vicino. Braxa stava tremando, non come quando, eseguendo la danza di Locar, aveva imitato il vento, ma per la tensione di un pianto trattenuto. Teneva la sigaretta in modo goffo, come se fosse una matita. Con un certo impaccio le passai un braccio attorno alle spalle.

— È così triste quello che avete letto finora! — disse lei.

Decisi di proporle un testo più gioioso e improvvisai una versione dal tedesco in marziano di una poesia su una ballerina spagnola. Ero sicuro che le sarebbe piaciuta e così fu.

— Ohhh — esclamò rapita. — L'avete scritta voi?

— No, un poeta più illustre di me.

— Non vi credo. L'avete scritta voi.

— No, un uomo che si chiamava Rilke.

— Ma voi l'avete resa nella mia lingua. Accendete un altro fiammifero, in modo che io possa vedere come danzava quella ballerina.

Obbedii.

I fuochi dell'eternità — ripeté lei con aria meditabonda — e lei li spense, calpestandoli "con piedi piccoli e fermi". Mi piacerebbe saper danzare così.

— Voi siete più brava di qualsiasi zingara — dissi ridendo, poi spensi il fiammifero.

— No, non è vero. Io non saprei ballare così.

— Volete che danzi per voi?

La sua sigaretta si stava consumando, così gliela presi dalle dita e la spensi insieme alla mia.

— No — risposi. — Andate a letto.

Lei sorrise e, prima che mi rendessi conto di quello che stava facendo, sciolse il nodo rosso che tratteneva il suo vestito sulla spalla.

Mi sentii mancare il repsiro.

— D'accordo — disse lei.

Mi avvicinai a Braxa e la baciai, mentre il respiro della stoffa che cadeva spegneva la lampada.

 

III

 

I giorni erano come le foglie di Shelley: gialli, rossi, marroni, sferzati dalle brusche raffiche del vento di ponente. Volarono con gli scatti dei microfilm. Avevo riprodotto quasi tutti i testi ormai. Agli studiosi sarebbero serviti anni per esaminarli e per stabilirne il valore. La storia di Marte era chiusa nel mio cassetto.

Il Libro delle Ecclesiaste, abbandonato e ripreso decine di volte, era quasi pronto per essere letto nella Lingua Alta.

Quando non ero nel Tempio, fischiavo. Scrissi risme di poesie di cui un tempo mi sarei vergognato. La sera passeggiavo con Braxa nel deserto o sulle montagne. A volte lei danzava per me e io le leggevo qualche lunga poesia in esametro dattilico. Lei continuava a pensare che io fossi Rilke e, scherzando, finii quasi per crederlo anch'io. E mi vedevo nel Castello di Duino, intento a comporre le Elegie

...È strano non abitare più la Terra,

non conoscere più le usanze di un tempo,

Né interpretare le rose...

 

No! Mai interpretare le rose! Non odorarle, coglierle, goderne. Vivere l'attimo. Tenersi saldamente aggrappati a esso. Ma non chiedere spiegazioni agli dèi. Le foglie cadono così in fretta, e il vento le porta via...

Nessuno si era mai accorto di noi. E a nessuno sembrava che importasse.

Laura. Laura e Braxa. Una sintonia un po' stridente le unisce. Lei era alta, fredda e bionda (io odio le bionde!), Papà mi aveva rivoltato come un calzino e io pensavo che lei potesse riempire di nuovo il vuoto che c'era in me. Ma il grande imbracatore di parole, con la sua barba da Giuda e lo sguardo di un cane fedele, era servito soltanto a fare da ammirato soprammobile alle sue feste. Nient'altro.

Come mi tormentava la macchina nel Tempio! Bestemmiava contro Malann e contro Gallinger. E continuavano a soffiare i venti violenti di ponente e qualcosa stava per accadere.

Incombevano su di noi gli ultimi giorni.

 

Per un intero giorno e una notte non vidi Braxa.

E fu così anche l'indomani. E il giorno dopo ancora.

Mi sembrava di impazzire. Non mi ero reso conto di quanto fosse cresciuta l'intimità fra di noi, di quanto importante lei fosse diventata per me.

Dovetti chiedere sue notizie. Non volevo farlo, ma non avevo scelta.

— Dov'è, M'Cwyie? Dov'è Braxa?

— Se ne è andata — mi rispose.

— Dove?

— Non lo so.

Fissai i suoi occhi da uccello del diavolo. Mi sorse alla labbra la maledizione maranata.

— Devo saperlo.

Lei mi guardò attentamente.

— Braxa ci ha lasciati. Se ne è andata. Sulle colline, immagino. O nel deserto. Non ha importanza. Niente ha importanza. La danza volge al termine. Presto il Tempio sarà vuoto.

— Perché? Perché se ne è andata?

— Non lo so.

— Devo assolutamente rivederla. Fra pochi giorni lasceremo il pianeta.

— Mi dispiace, Gallinger.

— Anche a me dispiace — replicai chiudendo il libro di scatto, senza dire "M'narra".

Mi alzai.

— La troverò.

Uscii dal Tempio. M'Cwyie rimase seduta immobile, come una statua. I miei stivali erano dove li avevo lasciati.

 

Per tutto il giorno percorsi il deserto in lungo e in largo, senza meta. All'equipaggio dell'Aspic dovevo sembrare una tempesta di sabbia, tutto solo in mezzo alle dune. Alla fine fui costretto a tornare alla base per fare rifornimento.

Emory mi venne incontro a grandi passi.

— Buongiorno, Gallinger. Sembra l'abominevole uomo della sabbia. Come mai quel rodeo?

— È... Ho perso una cosa.

— In mezzo al deserto? È uno dei suoi sonetti? Non riesco a immaginare nient'altro per cui potrebbe darsi tanta pena.

— No. Si tratta di una cosa personale.

George finì di riempire il serbatoio e io saltai di nuovo a bordo.

— Fermo — mi intimò Emory prendendomi per un braccio. — Lei non va da nessuna parte se prima non mi dice che cosa sta succedendo.

Avrei potuto facilmente liberarmi dalla sua presa, ma lui avrebbe potuto ordinare a qualcuno di trascinarmi a forza sull'astronave e c'erano troppe persone che sarebbero state contente di farlo. Così mi sforzai di parlare con tono gentile.

— Ho semplicemente perso il mio orologio. Me lo regalò mia madre, è un ricordo di famiglia. Voglio trovarlo prima di ripartire.

— È sicuro di non averlo lasciato nella sua cabina o a Tirellian?

— Ho già controllato.

— Forse qualcuno gliel'ha nascosto per farle un dispetto. Sa, lei qui non è considerata la persona più simpatica della terra.

Scossi la testa.

— Ci ho pensato, ma è impossibile. Lo tengo sempre nella tasca destra della giacca e penso che mi sia caduto mentre attraversavo il deserto. Sa, con tutti quei sobbalzi...

Emory socchiuse gli occhi.

— Ricordo di aver letto sul risvolto di copertina di un suo libro che sua madre è morta nel darla alla luce.

— È esatto — risposi, mordendomi la lingua. — Quell'orologio apparteneva a suo padre e lei voleva che fossi io a portarlo un giorno. Me lo diede mio padre quando crebbi.

Emory sbuffò poco convinto. — Andare avanti e indietro per il deserto con un fuoristrada è un modo un po' strano di cercare un orologio.

— Così riesco a vedere il riflesso della luce sul metallo — azzardai, pur sapendo che si trattava di una spiegazione poco convincente.

— Ormai comincia a fare buio — osservò Emory. — Per oggi non ha più senso continuare le ricerche.

— Copri la macchina con un telo — urlò poi rivolto al meccanico.

Mi batté con la mano sul braccio.

— Venga dentro e si faccia una doccia, poi mangi un boccone. Mi sembra che abbia bisogno di entrambi.

Piccoli granelli di grasso sotto gli occhi pallidi, i capelli radi e un naso irlandese; una voce di un decibel superiore a quella di chiunque altro...

La sua unica qualifica per il comando.

Lo odiavo. Oh Claudio! Se solo quello fosse stato il quinto atto!

Ma poi considerai l'idea di fare una doccia e di mangiare qualcosa da un altro punto di vista. Avevo un bisogno disperato di lavarmi e di mettere qualcosa sotto i denti. E poi, insistendo per ripartire subito, avrei destato ulteriori sospetti.

Così, scrollandomi un po' di sabbia dalla manica, dissi: — Ha ragione. Mi sembra proprio una buona idea.

— Andiamo, mangeremo nella mia cabina.

La doccia fu una benedizione, la mimetica pulita una grazia di Dio e il cibo aveva il profumo del paradiso.

— Promette bene — osservai annusando il piatto.

Divorammo la bistecca senza parlare. Quando arrivammo al dolce e al caffè, Emory mi fece una proposta: — Perché non si prende una notte di libertà? Rimanga qui e dorma un po'.

Io scossi la testa.

— Ho molto da fare e non mi resta più molto tempo prima della partenza.

— Un paio di giorni fa mi aveva detto di aver quasi finito.

— Quasi, ma non del tutto.

— Mi aveva anche detto che questa sera si sarebbe svolta una funzione al Tempio.

— È così, infatti. Io lavorerò nella mia camera.

Emory scrollò le spalle.

Poi, come se proprio non gli restasse altra soluzione, disse: — Gallinger! — E io alzai di scatto lo sguardo, perché quando mi chiamava per nome significava che c'erano guai in vista.

— Non dovrebbero essere affari miei — proseguì — ma in questo caso lo sono. Betty dice che lei ha una ragazza a Tirellian.

Non era una domanda. Era un'affermazione sospesa in aria. In attesa di conferma.

Betty sei una stronza. Una strega fetente e gelosa. Perché non tieni il naso fuori dalle cose che non ti riguardano e soprattutto non tieni chiusa quella tua boccaccia?

E allora? — replicai io. Un'affermazione con un punto interrogativo.

— E allora — disse Emory — il mio dovere, come comandante di questa spedizione, è quello di assicurarmi che i rapporti con gli indigeni siano di natura amichevole e diplomatica.

— Lei parla di loro come se fossero aborigeni — protestai. — Non potrebbe commettere errore più grosso.

Mi alzai.

— Quando pubblicherò i miei studi tutti sulla Terra sapranno la verità. Rivelerò cose che il dr. Moore non ha neanche lontanamente immaginato. Rivelerò la tragedia di una razza dal destino segnato, di un popolo che aspetta la morte con rassegnazione e indifferenza. Rivelerò anche il perché e questo spezzerà il duro cuore degli studiosi. Scriverò libri su Marte e i suoi abitanti e vincerò altri premi, ma questa volta io non li accetterò. Dio mio! — esclamai. — Conoscevano già la civiltà quando i nostri antenati cacciavano lo smilodonte e scoprivano il mistero del fuoco!

— Lei ha una ragazza a Tirellian?

— Sì! — dissi. Sì Claudio! Sì, Papà! Sì, Emory! Ma le darò in anteprima una notizia sensazionale. I marziani sono già morti. Sono sterili. Nello spazio di una generazione la popolazione di Marte scomparirà.

Tacqui alcuni istanti, poi aggiunsi: — Tranne che nei miei libri, in qualche fotografia e su qualche nastro. E in alcune poesie su una ragazza che voleva vivere e che può solo lamentarsi dell'ingiustizia del suo destino danzando.

— Ah — disse Emory.

E dopo un po', aggiunse: — Lei è cambiato in questi ultimi due mesi. Sa, è perfino riuscito a comportarsi civilmente in alcune occasioni. Non ho potuto fare a meno di domandarmi che cosa le fosse successo. Non sapevo che esistesse qualcosa che potesse starle così tanto a cuore.

Chinai la testa.

— È quella ragazza la ragione per cui ha scorrazzato tutto il giorno per il deserto?

Annuii.

— Ma perché?

Sollevai lo sguardo.

— Perché è là fuori, da qualche parte. Non so dove, né perché. Ma devo trovarla prima che partiamo.

— Ah — disse di nuovo Emory.

Poi si allungò all'indietro, aprì un cassetto ed estrasse un oggetto avvolto in un asciugamano. Lo aprì e sul tavolo apparve il volto incorniciato di una donna.

— Mia moglie — disse il comandante.

La donna aveva un bel viso, con grandi occhi a mandorla.

— Io sono un marinaio, lo sa — riprese. — E una volta ero un giovane ufficiale. La conobbi in Giappone. — Nel paese da dove provenivo non era ritenuto giusto sposarsi fra persone di razze diverse, perciò non ci sposammo mai. Ma per me lei era mia moglie. Quando morì io ero dalla parte opposta del mondo. Hanno preso i miei figli e da allora io non li ho mai più rivisti. Ho cercato di scoprire in quale orfanotrofio fossero stati mandati o a quale famiglia fossero stati affidati, ma senza successo. È accaduto molto tempo fa. Poche persone conoscono questa storia.

— Mi dispiace — dissi.

— Non si dispiaccia. Anzi dimentichi quello che le ho raccontato. Ma... — si dimenò sulla sedia e mi guardò — ...se vuole, può portare quella ragazza con sé sulla Terra. Per me significa giocarmi il posto, ma non mi interessa: ormai sono troppo vecchio perché mi affidino il comando di un'altra spedizione come questa. Perciò vada.

Trangugiò il caffè.

— Prenda un fuoristrada e vada a cercarla.

Fece ruotare la sedia e mi diede le spalle.

Io cercai per due volte di dirgli "grazie*', ma non ci riuscii. Così mi alzai e mi avviai verso la porta.

— Sayonara, eccetera eccetera — borbottò Emory mentre uscivo.

 

— Eccola qui, Gallinger! — urlò una voce alle mie spalle.

Girai sui tacchi e guardai in cima alla rampa.

— Kane!

La sua figura si stagliava in controluce nel vano del portello, ma quando aveva tirato su col naso lo avevo riconosciuto.

Ritornai indietro.

— Ecco qui cosa?

— La tua rosa.

Mi mostrò un contenitore di plastica diviso in due. La parte inferiore era piena di liquido, nel quale era immerso lo stelo. Quella superiore, simile a un bicchiere di chiaretto in quella notte orribile, racchiudeva una grande rosa appena sbocciata.

— Grazie — dissi infilando il contenitore all'interno della giacca.

— Ritorni a Tirellian?

— Sì.

— Ti ho visto salire a bordo e così l'ho preparata. Ho cercato di raggiungerti nella cabina del capitano, ma eri appena uscito. Lui era occupato e mi ha urlato di correre al garage.

— Grazie di nuovo.

— È stata trattata con prodotti chimici. Resterà fiorita per settimane.

Annuii e me ne andai.

 

In cima alle montagne adesso. Lontano. Lontano. Il cielo era un secchiello di ghiaccio senza luna. La salita si fece più erta e il mio asinelio protestò. Lo sferzai, aumentando la velocità e proseguii. Su, sempre più su. Vidi una stella verde che non pulsava e sentii un nodo alla gola. Nel suo astuccio la rosa batteva contro il mio petto come un secondo cuore. L'asino ragliava, erano ragli forti e prolungati, poi cominciò a tossire. Lo sferzai ancora un po' e si spense.

Tirai il freno di emergenza e scesi. Proseguii a piedi.

Dunque, fa così freddo quassù di notte. Ma perché? Perché l'ha fatto? Perché lasciare il fuoco dell'accampamento quando cala la notte?

Mi arrampicai per sentieri scoscesi, attraversai gole, varcai passi, muovendomi con un'agilità che non avevo mai conosciuto sulla Terra.

Ci restano due soli giorni, amore mio, e tu mi hai abbandonato. Perché?

Passai carponi lungo il bordo di strapiombi, saltai sopra crestoni di roccia. Mi sbucciai le ginocchia e un gomito. Strappai la giacca.

Nessuna risposta, Malann? Odi davvero così tanto il tuo popolo? Allora proverò a invocare qualcun altro. Visnu, tu che sei il Protettore, proteggila, ti prego! Fa' che io riesca a trovarla.

Geova? Adone? Osiride? Thammuz? Miantou? Legba? Ditemi, dov'è la mia amata?

Invocai gli dei ad alta voce e scivolai.

Sentii il terreno sdrucciolare sotto i piedi e rimasi sospeso sul ciglio di una parete a picco. Avevo le dita gelate. Era difficile restare aggrappati alla roccia.

Guardai giù.

Quattro metri circa. Mi lasciai cadere e quando toccai terra cominciai a rotolare. Allora la sentii urlare.

Rimasi disteso lì, immobile, lo sguardo rivolto verso l'alto. Sopra di me, contro la notte, lei urlò il mio nome. — Gallinger!

Io non risposi.

— Gallinger!

Poi scomparve.

Sentii il rumore di alcuni sassi che rotolavano e capii che stava scendendo verso di me, lungo un sentiero alla mia destra. Balzai in piedi e mi nascosi dietro un masso. Lei arrivò da una scorciatoia e proseguì con esitazione fra le pietre.

— Gallinger?

Usci dall'ombra e la afferrai per le spalle.

— Braxa.

Lei urlò di nuovo, poi iniziò a piangere e cercò rifugio fra le mie braccia. Era la prima volta che la vedevo piangere.

— Perché? — le domandai. — Perché?

Ma lei rimase aggrappata a me e continuò a singhiozzare. Alla fine: — Pensavo che fossi morto.

— Ho rischiato di morire — le dissi. — Ma perché sei andata via da Tirellian e mi hai lasciato?

— M'Cwyie non te l'ha detto? E tu non l'hai intuito?

— No, come potevo? E M'Cwyie mi ha detto di non sapere niente.

— Allora ha mentito. Perché lei sa tutto.

— Che cosa sa?

Braxa tremava come una foglia. Tacque a lungo. All'improvviso mi accorsi che indossava soltanto il suo leggero costume da ballo. La allontanai da me, mi tolsi la giacca e gliela misi sulle spalle.

— Grande Malann! — esclamai. — Vestita così, morirai congelata!

— No — mi rispose — non morirò.

Feci per infilare l'astuccio con la rosa in una tasca della tuta.

— Che cos'è? — mi domandò lei.

— Una rosa — dissi. — Non si riesce a vedere bene con questo buio. Una volta ti ho paragonato a questo fiore, ricordi?

— Sì. Posso portarla io?

— Certo. — Infilai l'astuccio nella tasca della giacca. Io sto aspettando una spiegazione.

— Davvero non sai niente?

— No, ti dico!

— Quando caddero le Piogge — mi spiegò — sembra che soltanto i maschi rimasero colpiti dal flagello, il che era già una tragedia... Io, invece, sono stata risparmiata, almeno così pare.

— Ah — dissi. — Ah.

Ci guardammo senza parlare e io riflettei.

— Ma perché sei scappata? Che cosa c'è di male nel restare incinta su Marte? Tamur si è sbagliato. Il vostro popolo può continuare a vivere.

Braxa rise, di nuovo quelle note di violino suonate da un Paganini impazzito. La costrinsi a smettere.

— E come? — mi domandò alla fine sfregandosi una guancia.

— Voi vivete molto più a lungo di noi. Se il nostro bambino nascerà sano, ciò significherà che le nostre razze possono accoppiarsi. Devono pure esistere altre donne marziane fertili come te. Perché no?

— Hai letto il Libro di Locar e mi fai questa domanda? — disse Braxa. — È stata decisa la morte per la nostra razza: la proposta di morte è stata votata e approvata poco dopo che si è manifestato il flagello. Ma i seguaci di Locar lo sapevano già da molto tempo. Lo hanno deciso molti Processi fa. "Abbiamo fatto tutto" dissero, "abbiamo visto tutto, sentito e provato tutto. La danza è stata bella. Adesso lasciamo che finisca."

— Non puoi credere a una cosa del genere.

— Quello che credo io non ha importanza — mi rispose. — M'Cwyie e le Madri hanno deciso che dobbiamo morire e manterranno le loro decisioni. È rimasta soltanto un'ultima profezia, ma è sbagliata. Siamo destinati a morire.

— No — dissi io.

— E allora che cosa succederà?

— Vieni con me sulla Terra.

— No.

— D'accordo. Allora vieni con me adesso.

— Dove?

— Ritorniamo a Tirellian. Ho intenzione di parlare con le Madri.

— Non puoi, c'è una Cerimonia questa sera.

Scoppiai a ridere.

— Ah sì? E in onore di chi? Di un Dio che prima vi scaraventa a terra e poi vi prende a calci nei denti?

— È sempre Malann — mi rispose Braxa. — E noi siamo il suo popolo.

— Tu e mio padre sareste andati perfettamente d'accordo — ringhiai. — Ma io vado a Tirellian e tu verrai con me, a costo di doverti portare di peso... in fondo sono più grande di te.

— Ma non sei più grande di Ontro.

— E chi diavolo è Ontro?

— Lui ti fermerà. Gallinger. Ontro è il Pugno di Malann.

 

IV

 

Parcheggiai il fuoristrada di fronte all'unica entrata del Palazzo che conoscevo, quella di M'Cwyie. Braxa, che aveva visto la rosa alla luce di una lampada, la stava cullando in grembo, come se fosse nostro figlio, senza dire nulla. L'espressione del suo viso era passiva e bellissima.

— Sono nel Tempio in questo momento? — le chiesi. La sua espressione da Madonna non cambiò. Le ripetei la domanda. Lei si riscosse.

— Sì — disse con aria distante. — Ma tu non puoi entrare.

— Lo vedremo.

Feci il giro della macchina e la aiutai a scendere.

La presi per mano e lei mi seguì come se fosse in trance. Alla luce della luna appena sorta i suoi occhi mi apparvero come li avevo visti la prima volta che l'avevo incontrata, quando aveva danzato per me. Schioccai le dita. Non accadde nulla.

Così aprii la porta e la condussi dentro. L'ingresso del Palazzo era immerso nella penombra.

E fu allora che Braxa urlò per la terza volta quella sera:

— Non fargli del male, Ontro! È Gallinger!

Era la prima volta che vedevo un marziano di sesso maschile. Fino a quel momento avevo incontrato soltanto donne, perciò non avevo alcun parametro per giudicare se l'essere che mi si era parato dinnanzi fosse un impostore, come, in realtà, sospettavo.

Sollevai lo sguardo e lo osservai.

Il suo corpo mezzo nudo era coperto di nei e di tumefazioni. Doveva soffrire di qualche disfunzione ghiandolare, pensai.

Ero convinto di essere l'uomo più alto su Marte, ma Ontro superava i due metri ed era molto robusto. Adesso capivo da dove fosse saltato fuori il letto enorme che mi avevano procurato!

— Esci — mi ordinò. — Lei può entrare. Tu no.

— Devo prendere i miei libri e le mie cose.

Ontro sollevò il braccio sinistro e io lo seguii con lo sguardo. Tutti i miei libri, le mie carte e i miei effetti personali erano radunati in perfetto ordine in un angolo.

— Devo entrare. Devo parlare con M'Cwyie e con le Madri.

— Non puoi.

— Ma la vita del vostro popolo dipende da questo!

— Esci — tuonò il marziano. — Tornate a casa dalla tua gente, Gallinger. Vattene!

Il mio nome suonava in modo così diverso, pronunciato dalle sue labbra, come se appartenesse a qualcun altro. Quanti anni aveva? mi domandai. Trecento? Quattrocento? Aveva sempre fatto il guardiano del Tempio? Perché? Da chi doveva proteggerlo? Non mi piaceva il modo in cui si muoveva. Avevo già visto degli uomini muoversi in quel modo prima di allora.

— Esci — ripeté Ontro.

Se avevano raggiunto nelle arti marziali lo stesso grado di perfezione che avevano conseguito nella danza, o, peggio ancora, se le loro arti di combattimento facevano parte della danza, per me sarebbero stati guai.

— Tu entra — dissi a Braxa. — Dà la rosa a M'Cwyie. Dille che gliela mando io e che fra poco la raggiungerò.

— Farò quello che mi chiedi. Ricordati di me quando sarai sulla Terra. Addio, Gallinger.

Io non le risposi. Lei superò Ontro e varcò la soglia del Tempio con la rosa in mano.

— Te ne vai, adesso? — mi domandò il marziano. — Se ti fa piacere le dirò che abbiamo lottato e che tu mi hai quasi battuto, ma che alla fine io ti ho colpito facendoti perdere i sensi e che ti ho trasportato alla tua nave.

— No — dissi — perché in un modo o nell'altro io entrerò nel Tempio.

Ontro si piegò sulle ginocchia e allungò le braccia in avanti.

— È considerato peccato mettere le mani su un uomo sacro — tuonò — ma io ti fermerò, Gallinger.

La mia memoria era come una finestra appannata, investita improvvisamente da una folata di aria fresca. Le cose si chiarirono. I miei ricordi ritornarono a sei anni prima.

Ero studente alla Facoltà di Lingue Orientali dell'Università di Tokyo. Era la mia seconda serata infrasettimanale di svago. Mi trovavo all'interno di un cerchio di nove metri nel Kodokan, lo judogi fermato attorno ai fianchi da una cintura marrone. Ero Ikkyu,una classe al di sotto del grado minimo di esperto. Sullo judogi portavo un diamante marrone con la scritta, "Jujitsu", che significa atemiwaza: davvero, per via della tecnica che avevo elaborato e che, essendo incredibilmente adatta alle mie dimensioni, mi aveva permesso di vincere diversi combattimenti.

Ma non l'avevo mai usata contro un uomo ed erano cinque anni che non mi allenavo. Ero fuori forma, lo sapevo, ma cercai ugualmente di concentrarmi.

Una voce dal passato mi sussurrò "Hajime,cominciamo".

Di scatto, assunsi la posizione a gatto neko-ashi-dachi,e negli occhi del marziano si accese uno strano bagliore. Ontro si affrettò a correggere la sua posizione e... io mi scagliai contro di lui.

Il mio unico trucco!

La mia gamba sinistra schizzò verso l'alto come una molla rotta e con il piede colpii Ontro in pieno viso, a più di due metri da terra, mentre lui cercava di schivarmi facendo un balzo indietro.

Il marziano rovesciò la testa e cadde. Un debole gemito gli sfuggì dalle labbra. Ecco fatto,pensai. Mi dispiace, amico.

Ma mentre lo scavalcavo, non so come, lui riuscì a farmi lo sgambetto e io gli caddi addosso. Non riuscivo a credere che, dopo aver ricevuto quel colpo, Ontro fosse rimasto cosciente e avesse addirittura la forza non solo di muoversi. Non mi piaceva l'idea di dovergli fare ancora del male.

Ma prima che io me ne rendessi conto, lui riuscì a mettermi un braccio attorno alla gola.

No! Non può finire così!

Il suo avambraccio era come una sbarra d'acciaio contro la mia trachea e le mie carotidi. Poi, però, mi resi conto che in realtà Ontro era ancora privo di sensi e che la mossa che aveva eseguito era frutto di un riflesso acquisito in innumerevoli anni di allenamento. Avevo già assistito a una cosa simile, nello shiai. Uno dei due contendenti era stato soffocato e giaceva privo di sensi, ma continuava a lottare, e il suo avversario, pensando di non aver eseguito bene la mossa del soffocamento, la ripeté. Ma era un evento così raro!

Puntai i gomiti contro il suo costato e lo colpii al viso con la testa. Ontro allentò la stretta, ma non abbastanza. Allora, anche se non mi piaceva quello che stavo facendo, gli ruppi il dito mignolo. La pressione del suo braccio diminuì e io riuscii a liberarmi.

Ontro ansimava, il viso contorto. Di colpo, provai pietà per il gigante caduto mentre difendeva la sua gente, la sua religione, mentre obbediva agli ordini. E mi maledii, come mai avevo fatto prima di allora, per non aver girato attorno al suo corpo, anziché scavalcarlo.

Vacillando, raggiunsi l'angolo dove erano impilate le mie cose. Mi sedetti sulla scatola del proiettore e accesi una sigaretta.

Prima di entrare nel Tempio dovevo riprendere fiato e pensare a qualcosa da dire.

Come si fa a convincere un popolo a non suicidarsi?

Poi, di colpo... Ma avrebbe funzionato? Se io avessi letto loro il Libro delle Ecclesiaste... se avessi letto loro un'opera di letteratura più alta di quelle scritte da Locar, o da qualunque altro loro profeta, e al tempo stesso altrettanto cupa e intrisa di pessimismo... e se avessi dimostrato loro che la nostra razza era sopravvissuta, nonostante la condanna contro la vita espressa da un solo uomo nella più alta forma di poesia... se avessi dimostrato loro che quella vanità che lui aveva tanto disprezzato ci aveva portato in Paradiso... mi avrebbero creduto, avrebbero cambiato idea?

Spensi la sigaretta su quel bellissimo pavimento di mosaico e cercai il mio bloc-notes. Uno strano furore si impadronì di me quando mi alzai.

E io entrai nel Tempio per predicare il Vangelo Nero secondo Gallinger, dal Libro della Vita.

 

Attorno a me regnava il silenzio.

Prima che io entrassi, M'Cwyie stava leggendo Locar, la rosa, su cui erano appuntati tutti gli sguardi, posata accanto alla sua mano destra.

C'erano centinaia di persone sedute sul pavimento, scalze. Notai che i pochi uomini erano piccoli come le donne.

Io avevo su gli stivali.

Osa fino in fondo, pensai. Qui ti giochi tutto.

Una decina di donne decrepite erano sedute in semicerchio dietro M'Cwyie. Le Madri.

La terra sterile, i grembi freddi.

Mi avvicinai al tavolo.

— Lasciandovi morire — esordii rivolto alla Matriarca e alle Madri — voi condannate la vostra gente, impedendole di conoscere la vita che voi avete conosciuto, le gioie, i dolori, la pienezza.... Ma non è vero che siete destinati a morire — proseguii rivolgendomi all'assemblea dei fedeli. — Chi vi dice questo mente. Braxa lo sa, perché lei partorirà un bambino...

Erano tutti seduti in file ordinate, come tanti budda. M'Cwyie fece un passo indietro e si riunì alle Madri.

— ...mio figlio! — esclamai chiedendomi che cosa avrebbe pensato mio padre di quel sermone. — ...E tutte le donne in età ancora giovane potranno avere bambini. La sterilità ha colpito soltanto i maschi della vostra razza. E se permetterete ai medici della prossima spedizione di Terrestri di visitarvi, forse anche questo problema potrebbe essere risolto. Ma se i vostri uomini non riacquisteranno la fertilità, potrete accoppiarvi con i maschi della Terra. Il nostro non è un popolo senza importanza, così come la Terra non è un posto senza importanza — continuai. — Ma migliaia di anni fa, il Locar del nostro mondo scrisse un libro in cui sosteneva il contrario. Parlava come Locar, ma noi non ci siamo rassegnati alla sua condanna, nonostante le pestilenze, le guerre e le carestie. E non siamo morti. Una dopo l'altra abbiamo sconfitto le malattie, siamo riusciti a sfamare i popoli minacciati dalle carestie, abbiamo combattuto le guerre e da qualche tempo viviamo in pace. Forse, siamo riusciti finalmente a debellare anche quest'ultimo flagello. Non lo so. Abbiamo viaggiato nello spazio. Abbiamo visitato un altro mondo. Eppure il nostro Locar aveva detto: "Perché affannarsi? A che giova? È tutto vanità".

"E il segreto è — proseguii abbassando la voce, come quando si declama una poesia — che lui aveva ragione! Sì, è la vanità. È l'orgoglio. È l'arroganza della razionalità che sfida sempre il profeta, il mistico, il dio. È la nostra natura blasfema che ci ha resi grandi, che ci sosterrà e per cui gli dei segretamente ci ammirano!"

Ero immerso in un bagno di sudore e tacqui per alcuni istanti in preda alle vertigini.

— Ecco, questo è il Libro delle Ecclesiaste — proseguii e iniziai a leggere: — "Vanità delle vanità, dice Cohelet, vanità delle vanità, il tutto è vanità. Che resta all'uomo di tutto il suo affanno...

Individuai Braxa in fondo al tempio, muta, rapita.

Mi domandai a che cosa stesse pensando.

E avvolsi attorno a me le ore della notte, come un filo nero attorno a un rocchetto.

 

Come era tardi! Era già spuntato il giorno, ma io continuai a parlare. Quando finii di leggere il Libro delle Ecclesiaste continuai a predicare il mio vangelo.

E quando ebbi finito, attorno a me regnava lo stesso silenzio che aveva accolto il mio ingresso.

Nessuno dei budda seduti in fila aveva mosso un solo muscolo in tutta la notte. Dopo una lunga pausa, M'Cwyie sollevò la mano destra e, a una a una, le Madri la imitarono.

Io sapevo che cosa significasse quel gesto.

Significava No, non fare, smettere.

Significava che avevo fallito.

Uscii lentamente dal Tempio e mi accasciai accanto alla pila delle mie cose. Ontro se ne era andato. Meno male che non lo avevo ucciso...

Dopo quello che a me parve un secolo, la Matriarca uscì dal Tempio.

— Il vostro compito è finito — mi disse.

Io non mi mossi.

— La profezia si è avverata — riprese M'Cwyie — e il mio popolo gioisce. Voi avete vinto, uomo sacro. E adesso lasciateci, presto!

La mia mente era un pallone sgonfio. Mi sforzai di pomparvi dentro un po' d'aria.

— Io non sono un uomo sacro — protestai. — Sono soltanto un poeta di second'ordine e un caso patologico di arroganza.

Accesi una sigaretta.

Poi, di fronte al silenzio di M'Cwyie, cedetti. — Quale profezia?

— La Promessa di Locar — replicò lei, come se quella spiegazione fosse superflua — per cui, se avessimo eseguito tutte le danze, sarebbe giunto dal Cielo un uomo sacro per salvarci, quando la nostra ultima ora fosse stata vicina. Egli avrebbe sconfitto il Pugno di Malann e ci avrebbe ridato la vita.

— Come?

— Come con Braxa e con l'esempio nel Tempio.

— Quale esempio?

— Voi ci avete letto le sue parole, alte e possenti come quelle di Locar. Avete letto che "non esiste niente di nuovo sotto il sole" e avete deriso quelle parole... mostrandoci una cosa nuova.

— Non sono mai cresciuti fiori su Marte — proseguì — ma impareremo a coltivarli. — Voi siete il Sacro Dileggiatore — concluse — Colui-Che-Deve-Deridere-nel-Tempio... voi camminate calzato sul sacro suolo.

— Ma avete votato "no" — dissi io.

— Ho votato no all'attuazione del nostro piano originario e ho deciso, invece, di lasciare che il figlio di Braxa viva.

— Oh! — Mi cadde la sigaretta dalle mani. Che rischio avevo corso senza saperlo!

— E Braxa?

— Lei era stata scelta mezzo Processo fa per eseguire le danze... per aspettare voi.

— Ma mi ha detto che Ontro mi avrebbe fermato.

M'Cwyie tacque per un lungo istante.

— In realtà lei non aveva mai creduto nell'ultima profezia, per questo era scappata. Ma quando voi l'avete portata a compimento e noi abbiamo votato, ha capito.

— Allora non mi ama? Non mi ha mai amato?

— Mi dispiace, Gallinger. È l'unica parte del suo dovere che non è mai riuscita a compiere.

— Dovere — ripetei con voce spenta... Dovere dovere dovere!!

— Mi ha detto di dirvi addio. Non desidera rivedervi mai più. ...e noi non dimenticheremo mai i vostri insegnamenti — concluse M'Cwyie.

— No, non dimenticateli — dissi io automaticamente, rendendomi conto in quel momento del paradosso insito in tutti i miracoli. Non credevo a una sola parola del mio vangelo, non ci avevo mai creduto.

Mi alzai, vacillando come un ubriaco e borbottai — M'narra.

Uscii in quello che sarebbe stato il mio ultimo giorno su Marte.

Ti ho conquistato Malann! ...e la vittoria è tua! Riposati sul tuo tetto di stelle. Dio maledetto!

Abbandonai il fuoristrada a Tirellian e ritornai a piedi all'astronave, lasciando dietro di me il peso della vita. Entrai nella mia cabina, chiusi la porta a chiave e presi quarantotto pillole di sonnifero.

 

Ma quando mi svegliai ero nell'infermeria della nave, vivo.

Mi alzai lentamente e, sentendo le vibrazioni del motore, mi trascinai fino all'oblò.

Marte era sospeso sopra di me, come una grande pancia. Io fissai il pianeta fino a quando scomparve e solo allora piansi.

 

Se non ci fosse Benny Cemoli

If There Where Not Benny Cemoli

di Philip K. Dick

Galaxy Science Fiction, dicembre

 

Una delle cose migliori che potessero accadere alla fantascienza negli ultimi anni è l'incredibile attenzione e la glorificazione toccate a Philip K. Dick. I suoi migliori lavori sono ripresentati da numerosi editori; film come Atto di forza (basato sul suo racconto: "Chi se lo ricorda?") è stato un successo di botteghino, mentre sempre più sovente si leggono ottimi saggi critici sulla sua opera.

Qualcuno, come Richard Bernstein della "The New York Times Book Review" ha scritto che il "nuovo" concetto di "realtà virtuale" è qualcosa su cui Dick ha costruito tutta la sua carriera, e un racconto come questo è un perfetto esempio di realtà, irrealtà, possibile realtà mai prodotta in una storia così breve. E io l'amo molto perché amo credere che Benny Cemoli è il cugino del fuoricampista dei Brooklyn Dodgers, la mia squadra del cuore, Gino Cemoli.

 

Sgambettando attraverso i campi non arati i tre ragazzi gridarono quando videro la nave; era atterrata con manovra perfetta proprio dove si aspettavano ed essi erano i primi a raggiungerla.

— Ehi, è la più grande che abbia mai visto! — Ansimando, il primo ragazzo si fermò. — Questa non viene da Marte; viene da più lontano. Da molto distante, lo so. — Poi tacque, timoroso, nel vederne le dimensioni. E guardando verso il cielo, si rese conto che era giunta una flotta proprio come tutti si aspettavano. — Faremo meglio ad andarlo a riferire — disse ai suoi compagni.

Più indietro, sulla collina, John LeConte stava in piedi presso la sua limousine a vapore guidata da un autista, attendendo con impazienza che la caldaia si riscaldasse. I ragazzi sono arrivati per primi,si disse con rabbia. Dove avrei dovuto esserci io. E quei ragazzi erano degli straccioni; semplici garzoni di fattoria.

— Funziona il telefono oggi? — chiese LeConte al suo segretario.

Guardando il centralino il signor Fall rispose: — Sì, signore. Devo mandare un messaggio a Oklahoma City? — Era l'impiegato più magro mai assegnato all'ufficio di LeConte; evidentemente non prendeva nulla per sé, e non era minimamente interessato al cibo. E inoltre, era efficiente.

LeConte mormorò: — Quelli dell'immigrazione dovrebbero essere informati di un simile scandalo. — Emise un sospiro. Era andato tutto male; dopo dieci anni era arrivata la flotta da Proxima Centauri, e nessuno degli strumenti di allarme l'aveva rilevata prima del suo atterraggio. Adesso Oklahoma City avrebbe dovuto trattare con gli estranei qui, sul proprio terreno... uno svantaggio psicologico che LeConte avvertiva acutamente.

Guarda che equipaggiamento che hanno, pensò mentre osservava le navi commerciali della flottiglia che iniziavano le operazioni di scarico. Accidenti a loro, ci fanno fare la figura dei provinciali. Desiderò che la sua macchina ufficiale non avesse bisogno di venti minuti per riscaldarsi; desiderò...

Desiderò che l'Uruc non esistesse. L'Ufficio Rinnovamento Urbano del Centauro, un ente benefico sfortunatamente investito di un'enorme autorità inter-sistema... era stato informato della Catastrofe nel 2170 e si era diretto verso lo spazio come un organismo foto-tropico, sensibile alla luce puramente fisica creata dalle esplosioni delle bombe all'idrogeno. Ma LeConte sapeva ancora di più; in realtà le organizzazioni governative del sistema centauriano conoscevano molti particolari della tragedia perché erano state in contatto radio con altri pianeti del Sistema Solare. Poche delle forme native della Terra erano sopravvissute. Lui stesso veniva da Marte; aveva capeggiato sette anni prima una missione di soccorso, poi aveva deciso di rimanere perché lì sulla Terra c'erano così tante occasioni anche se le condizioni erano quelle che erano...

Tutto questo è molto difficile, si disse mentre continuava ad aspettare che la sua macchina si scaldasse. Noi siamo arrivati qui per primi, ma l'Uruc ci esautora; dobbiamo fronteggiare questa situazione imbarazzante. Per me abbiamo fatto un buon lavoro di ricostruzione. Naturalmente, non è come era prima... ma dieci anni non sono poi tanti. Datecene altri venti e rifaremo funzionare i treni. E il nostro ultimo prestito per la costruzione di strade sta andando molto bene, anzi è stato sottoscritto oltre le previsioni.

— Una chiamata per lei, signore, da Oklahoma Citty — disse il signor Fall, porgendo il ricevitore del telefono da campo portatile.

— Qui è l'Ultimo Rappresentante sul Campo, John LeConte — disse ad alta voce. — Parlate. Ripeto, parlate.

— Qui è il Quartier Generale del Partito. — La voce secca e ufficiale giungeva debolmente al suo orecchio dall'altro capo del filo, disturbata dalle scariche elettriche. — Abbiamo ricevuto rapporti da dozzine di solerti cittadini nell'Oklahoma occidentale e nel Texas di un'immensa...

— È qui — disse LeConte. — Posso vederla; ero proprio sul punto di scendere a conferire con i capi, e farò un rapporto completo alla solita ora. Non era necessario che voi mi controllaste. — Si sentiva irritato.

— La flotta ha armi pesanti?

— No — rispose LeConte. — Sembra che sia composta da burocrati, agenti commerciali e funzionari. In altre parole, avvoltoi.

Il funzionario del Partito replicò: — Bene, vada a fargli capire che la loro presenza qui non è gradita dalla popolazione locale, e nemmeno dal Consiglio Amministrativo di Assistenza alle Zone Disastrate dalla Guerra. Dica loro che la legislatura sarà chiamata a votare una mozione speciale per esprimere indignazione per questa intrusione nelle nostre questioni interne da parte di un organismo inter-sistema.

— Lo so, lo so — disse LeConte — è già stato deciso tutto, lo so.

L'autista lo chiamò: — Signore, la macchina è pronta.

Il funzionario concluse: — Gli faccia capire che lei non può trattare con loro. Lei non ha l'autorità per accettarli sulla Terra. Solo il Consiglio può farlo, e naturalmente è del tutto contrario.

LeConte riattaccò il telefono e corse alla macchina.

 

Malgrado l'opposizione delle autorità locali, Peter Hood dell'Uruc decise di sistemare il suo quartier generale tra le rovine della vecchia capitale terrestre, New York City. Questo avrebbe conferito prestigio agli uomini dell'Uruc, man mano che fossero riusciti ad allargare la sfera d'influenza dell'organizzazione. Alla fine, naturalmente, la sfera d'influenza avrebbe abbracciato l'intero pianeta. Ma ci sarebbero voluti decenni.

Mentre camminava attraverso le rovine di quella che una volta era stata una grande stazione ferroviaria, Peter Hood si disse che, quando l'impresa fosse stata portata a termine, lui sarebbe stato in pensione già da molto tempo. Lì non rimaneva molto della cultura e della civiltà pre-catastrofe, e le autorità locali - le nullità politiche che erano piovute da Marte e da Venere, come erano chiamati i pianeti vicini - avevano fatto ben poco. Eppure ammirava i loro sforzi.

Ai membri del suo stato maggiore, che camminavano proprio dietro di lui, disse: — Sapete, hanno compiuto il lavoro più difficile al posto nostro; dovremmo essere grati. Non è facile operare in una zona totalmente distrutta, come hanno fatto loro.

Fletcher, uno dei suoi uomini, osservò: — Hanno avuto un buon tornaconto.

— Non ha importanza il motivo — disse Hood. — Hanno ottenuto dei risultati. — Stava pensando al funzionario che era andato a prenderli con la sua macchina a vapore; era stato solenne e formale quell'incontro, e pieno di trappole sottili. Quando i locali erano arrivati per primi sulla scena, molti anni addietro, non erano stati accolti da nessuno, se non forse da alcuni sopravvissuti bruciati e anneriti dalle radiazioni, che erano incespicati fuori dalle cantine alla cieca, con la bocca splancata. Rabbrividì.

Avvicinandosi a lui, un uomo dell'Uruc di rango inferiore lo salutò e gli disse: — Penso che siamo riusciti a trovare un fabbricato non troppo danneggiato in cui il suo stato maggiore potrebbe sistemarsi fin d'ora. È sotto terra. — Sembrò imbarazzato. — Non è quello che avevamo sperato... dovremo sgombrare i locali per renderli un po' attraenti.

— Sì — assentì Hood — hanno avuto un bel po' di tempo per esplorarli. Non ho obiezioni; anche un sotterraneo, se fa al nostro scopo, andrà bene.

— L'edificio — disse l'uomo — fu un tempo la sede di un grande giornale omeostatico, il New York Times; si stampava proprio sotto di noi. Almeno, così risulta dalle mappe. Ancora non siamo riusciti a localizzare il giornale; gli omeogiornali venivano abitualmente sepolti a oltre un chilometro di profondità. Ancora non sappiamo quanto sia rimasto di questo.

— Ma sarebbe prezioso — convenne Hood.

— Sì — rispose l'uomo dell'Uruc. — I suoi sistemi di distribuzione sono sparpagliati su tutta la superficie del pianeta; deve aver avuto un migliaio di edizioni differenti che stampava quotidianamente. Come facessero a funzionare tutti quei sistemi... — s'interruppe. — È difficile credere che i politicanti locali non abbiano fatto il minimo tentativo per rimettere in funzione uno dei dieci o undici omeogiornali a diffusione mondiale, ma sembra che sia stato proprio così.

— Strano — disse Hood. Certamente avrebbe facilitato il loro compito; l'impegno post-catastrofe di riunire la popolazione in una civiltà comune dipendeva dai giornali, poiché le particelle nell'atmosfera rendevano difficile se non impossibile la ricezione radiotelevisiva. — Questo mi fa sospettare — disse rivolto al suo stato maggiore. — Forse non ci provano affato? E il loro lavoro è soltanto un pretesto?

Fu sua moglie Joan a parlare. — Forse sono semplicemente incapaci di ristrutturare gli omeogiornali su base operativa.

Diamo loro il beneficio del dubbio, pensò Hood. Hai ragione.

— E così l'ultima edizione del Times — disse Fletcher — fu pubblicata il giorno in cui avvenne la catastrofe. E da allora l'intera rete di comunicazione e di creazione delle notizie si è spezzata. Non posso portar rispetto a questi politicanti; tutto ciò dimostra la loro ignoranza sui fondamenti di una civiltà. Ricostruendo gli omeogiornali noi possiamo fare più per ristabilire la civiltà pre-catastrofe di quanto abbiano fatto loro con diecimila pietosi progetti. — Il tono era sprezzante.

Hood disse: — Può darsi che lei abbia capito male, ma lasciamo perdere. Speriamo che il cephalon del giornale sia intatto; non saremmo in grado di sostituirlo. — Davanti a sé vide l'ingresso spalancato che era stato sgombrato dalle squadre dell'Uruc. Questo doveva essere il suo primo passo, lì sul pianeta in rovina, riportare quell'immensa entità autosufficiente alla sua antica autorità. Una volta che avesse ripreso la sua attività lui sarebbe stato libero per altri impegni; l'omeogiornale si sarebbe caricato una parte del suo fardello.

Un operaio, che stava ancora togliendo i detriti, borbottò: — Accidenti, non ho mai visto tanti strati di spazzatura. Si potrebbe pensare che l'abbiano imbottigliata volutamente, là sotto. — Nelle sue mani la fornace aspirante che stava manovrando brillava e pulsava nell'assorbire materiale e nel convertirlo in ehergia, lasciando un'apertura assai più larga.

— Voglio un rapporto sulle sue condizioni, il più presto possibile — disse Hood all'équipe d'ingegneri che era in attesa di scendere nell'apertura. — Quanto ci vorrà per rimetterlo in funzione, quanto... — s'interruppe.

Erano arrivati due uomini in uniforme nera. Agenti dalla nave della Sicurezza. Vide che uno era Otto Dietrich, il poliziotto di grado più alto che accompagnava la flotta venuta dal Centauro, e automaticamente s'irrigidì; fu un riflesso spontaneo in tutti... vide gli ingegneri e gli operai cessare momentaneamente il lavoro, per poi riprenderlo con più lentezza.

— Sì — disse a Dietrich. — Lieto di vederla. Andiamo in questa stanza e parliamo. — Sapeva, oltre ogni dubbio, ciò che il poliziotto voleva; aveva atteso la sua visita.

Dietrich disse: — Non le ruberò troppo tempo, Hood. So che lei è piuttosto occupato. Cosa c'è, qui? — Girò all'intorno con curiosità la sua faccia lucida, rotonda e attenta, non riuscendo a nascondere la propria impazienza.

 

In una stanzetta laterale, momentaneamente adattata a ufficio, Hood affrontò i due poliziotti. — Sono contrario a un procedimento penale — disse tranquillo. — È passato troppo tempo; lasciatemi andare.

Pizzicandosi l'orecchio con aria penosa, Dietrich rispose: — Ma i crimini di guerra sono crimini di guerra, anche dopo tre, o quattro decenni, o più. Comunque, c'è poco da discutere. La legge c'impone di procedere. Qualcuno ha dato inizio alla guerra. Potrebbero anche occupare posti di responsabilità, ora, ma non ha molta importanza.

— Quanti agenti ha fatto sbarcare? — domandò Hood.

— Duecento.

— Quindi siete pronti a mettervi al lavoro.

— Siamo pronti a svolgere le indagini. A sequestrare i relativi documenti e a dare inizio ai processi nelle corti locali. Siamo preparati a imporre la cooperazione, se è questo che intende. Parecchi uomini d'esperienza sono stati distribuiti nei punti chiave. — Dietrich lo fissò. — Tutto questo è necessario; non vedo il suo problema. Forse lei intendeva proteggere i colpevoli... e servirsi delle loro cosiddette abilità a suo vantaggio?

— No — disse Hood con voce piatta.

— Quasi ottanta milioni di persone sono morte nella Catastrofe — disse Dietrich. — Può dimenticarlo? O forse perché era gente del luogo, non conosciuta da noi personalmente...

— Non è questo — disse Hood. Sapeva di non avere speranze; non riusciva a intendersi con la mentalità poliziesca. — Ho già formulato le mie obiezioni; io penso che non serva a nulla, a questo punto, intentare processi ed esecuzioni. Non mi chieda di servirsi del mio personale per uno scopo simile; rifiuterò sostenendo che non posso privarmi di nessuno, neppure di un custode. Mi sono spiegato bene?

— Idealisti — sospirò Dietrich. — È un compito molto nobile, in confronto al nostro... ricostruire, esatto? Ciò che lei non vede, o non vuole vedere, è che questa gente ricomincerà tutto da capo, un giorno, se non prendiamo dei provvedimenti adesso. Ne siamo debitori alle generazioni future; in prospettiva, essere duri adesso significa adottare il metodo più umano. Mi dica, Hood. Che cos'è questo luogo? Che cosa sta facendo risorgere, qui, con tanto impegno?

— Il New York Times — rispose Hood.

— Avrà, presumo, un archivio. Possiamo consultare le informazioni che vi sono custodite? Ci sarebbe molto utile per istruire i nostri processi.

Hood rispose: — Non posso negarle l'accesso al materiale che scopriremo.

Sorridendo, Dietrich disse: — Un resoconto giornaliero degli eventi politici che hanno portato alla guerra sarebbe assai interessante. Per esempio, chi deteneva il potere supremo negli Stati Uniti al tempo della Catastrofe? Nessuno di coloro ai quali l'abbiamo chiesto fino a ora sembra ricordasene. — Il suo sorriso si allargò.

 

Il giorno dopo, di buon mattino, il rapporto degli ingegneri raggiunse Hood nel suo ufficio provvisorio. Il generatore di energia del giornale era andato completamente distrutto. Ma il cephalon,la struttura-cervello principale che guidava e orientava il sistema omeostatico, sembrava essere intatto. Se si fosse portata una nave lì vicino, forse il suo generatore di energia avrebbe potuto essere integrato con le linee del giornale. Quindi si sarebbe potuto apprendere molto di più.

— In altre parole — disse Fletcher a Hood, mentre sedevano insieme a Joan per la colazione — potrebbe andare e potrebbe non andare. Molto pragmatico. Lei collega il tutto, e se funziona, il suo compito è finito. E se non funziona? Gli ingegneri lasceranno perdere?

Fissando la sua tazza Hood disse: — Questo ha il sapore del caffè vero. — Rifletté un attimo. — Dica loro di portar qui una nave e di rimettere in funzione l'omeogiornale. E se comincia a stampare, portatemi subito l'edizione. — Sorseggiò il suo caffè.

Un'ora più tardi una nave di linea era atterrata nelle vicinanze e il suo generatore di energia era stato collegato all'omeogiornale. Furono sistemati i cavi, e furono cautamente chiusi i circuiti.

Seduto nel suo ufficio, Peter Hood sentì, proveniente da molto lontano, sottoterra, un rumore sordo, un'agitazione incerta ed esitante. Il giornale stava ritornando alla vita.

L'edizione, deposta sulla sua scrivania da un eccitato uomo dell'Uruc, lo sorprese per la sua accuratezza. Perfino nel suo periodo nero, il giornale era riuscito in qualche modo a non rimanere indietro rispetto agli avvenimenti. I suoi ricevitori avevano continuato a funzionare.

 

L'URUC GIUNGE DA ALPHA CENTAURI DOPO UN VIAGGIO DI DIECI ANNI, E PROGETTA DI RICOSTRUIRE L'AMMINISTRAZIONE CENTRALE

 

Dieci anni dopo la catastrofe nucleare, l'agenzia di riabilitazione inter-sistema, l'Uruc, ha fatto la sua storica apparizione sulla faccia della Terra, con una vera e propria flotta di astronavi... uno spettacolo che i testimoni hanno descritto "schiacciante sia come prospettiva che come significato". Il funzionario dell'Uruc, Peter Hood, nominato dalle autorità centauriane coordinatore capo, ha immediatamente stabilito il suo quartier generale tra le rovine di New York e si è accordato per i sussidi, dichiarando di essere venuto "non per punire i colpevoli, ma per ristabilire la civiltà sull'intero pianeta con ogni mezzo disponibile, e per restaurare...".

 

Veramente strano, pensò Hood leggendo l'editoriale. I vari servizi di raccolta delle notizie dell'omeogiornale avevano frugato nella sua vita, avevano riassunto e inserito nell'articolo di fondo perfino la sua discussione con Otto Dietrich. Il giornale faceva, o aveva fatto, il suo lavoro; nessuna notizia interessante gli sfuggiva, neppure una conversazione privata svoltasi senza testimoni. Avrebbe dovuto essere più cauto.

Un altro articolo, dal tono sinistro, parlava dell'arrivo delle giubbe nere, i poliziotti.

 

LA SICUREZZA PUNTA SUI "CRIMINALI DI GUERRA"

 

Il capitano Otto Dietrich, il più alto funzionario di polizia giunto da Proxima Centauri con la flotta dell'Uruc, ha dichiarato oggi che i responsabili della Catastrofe di un decennio fa "dovranno pagare per i loro crimini davanti a un tribunale centauriano". Duecento agenti in uniforme nera, per quanto ha saputo il Times, hanno già iniziato indagini volte a...

 

Il giornale ammoniva la Terra a guardarsi da Dietrich, e Hood non poté fare a meno di provare una cupa soddisfazione. Il Times non era stato rimesso in funzione per servire soltanto la gerarchia d'occupazione; serviva a tutti, compresi coloro che Dietrich intendeva processare, e ogni passo dell'attività dei poliziotti sarebbe stata certamente riferito nei minimi dettagli. Dietrich, al quale piaceva lavorare nell'anonimato, non avrebbe visto la cosa di buon occhio. Ma l'autorità di far funzionare il giornale era nelle mani di Hood.

E lui non aveva alcuna intenzione di chiuderlo.

Un articolo in prima pagina attrasse la sua attenzione; lo lesse, accigliato, e un po' a disagio.

 

I SOSTENITORI DI CEMOLI PROVOCANO TUMULTI NELLO STATO DI NEW YORK

 

Sostenitori di Benny Cemoli, convenuti nelle abituali tendopoli associate alla sua pittoresca figura politica, si sono scontrati con gente del luogo armata di martelli, pale e tavole; entrambe le parti sostengono di aver avuto la meglio nella mischia, durata due ore, che ha causato venti feriti e ha imposto il ricovero di una dozzina di persone in posti di pronto soccorso organizzati in tutta fretta. Cemoli, abbigliato come al solito con il suo vestito rosso simile a un toga, ha visitato i feriti, evidentemente di ottimo umore, scherzando e dicendo ai suoi sostenitori che "ormai non durerà a lungo", evidente riferimento alla vanteria dell'organizzazione, secondo cui essa dovrebbe marciare su New York City in un prossimo futuro per stabilire ciò che Cemoli definisce "giustizia sociale e vera uguaglianza per la prima volta nella storia del mondo". Bisogna ricordare che, prima di essere impigionato a San Quintino...

 

Hood girò un interruttore nel suo sistema intercom e disse: — Fletcher, faccia controllare le attività nel Nord della contea; guardi se riesce a sapere qualcosa riguardo a un'organizzazione politica che si riunisce là.

La voce di Fletcher replicò: — Ho anche io una copia del Times,signore. Ho letto l'articolo su quell'agitatore, Cemoli. C'è una nave diretta là, proprio ora; dovrei avere un rapporto entro dieci minuti. — Fletcher s'interruppe. — Pensa che... sarà necessario immischiarci qualcuno degli uomini di Dietrich?

— Speriamo di no — disse Hood seccamente.

Mezz'ora più tardi la nave dell'Uruc, attraverso Fletcher, fece il suo rapporto. Perplesso, Hood chiese che fosse ripetuto. Ma non c'era nessun errore. La squadra dell'Uruc aveva indagato con cura. Non avevano trovato alcuna traccia di tendopoli o di persone riunite in gruppo. E i cittadini di quella zona che erano stati interrogati non avevano mai sentito nominare quel Cemoli. Né c'era alcun segno di scontri, di posti di soccorso, o di feriti, soltanto la pacifica campagna semi-contadina.

Confuso, Hood rilesse l'articolo del Times. Era lì, nero su bianco, in prima pagina, a fianco delle notizie sull'atterraggio della flotta dell'Uruc. Cosa voleva dire?

La cosa non gli piaceva neanche un po'.

Era stato un errore far rivivere il grande, vecchio, malridotto giornale omeostatico?

 

Quella notte Hood fu svegliato da un sonno profondo a causa di un fragore proveniente dal sottosuolo, un rumore insistente che cresceva in continuazione, mentre lui si metteva a sedere sul letto sbattendo le palpebre e in preda a una grande confusione. I macchinari ruggivano; udì il forte movimento rombante dei circuiti automatici che s'inserivano al loro posto, in risposta alle istruzioni trasmesse dall'interno dello stesso sistema chiuso.

— Signore — stava dicendo Fletcher, dal buio; poi si accese una luce quando Fletcher riuscì a premere l'interruttore provvisorio. — Ho pensato che era meglio svegliarla. Mi spiace, Signor Hood.

— Sono già sveglio — brontolò Hood, alzandosi dal letto e indossando vestaglia e pantofole. — Che succede?

— Sta stampando un'edizione straordinaria — rispose Fletcher.

Levandosi a sedere e carezzandosi all'indietro i biondi capelli scompigliati, Joan disse: — Buon Dio. Che significa? — Con gli occhi spalancati fissò il marito e poi Fletcher.

— Dovremo far venire le autorità locali — disse Hood. — E conferire con loro. — Aveva un'idea sulla natura dell'edizione straordinaria che ruggiva in quel momento tra le rotative. — Rintracci quel LeConte, quel politicante che ci accolse al nostro arrivo. Lo svegli e lo faccia venire qui in volo; abbiamo bisogno di lui.

Ci volle quasi un'ora per avere la presenza dell'arrogante e cerimonioso signorotto locale insieme al suo segretario; finalmente i due fecero la loro comparsa, nelle loro elaborate uniformi, nell'ufficio di Hood, entrambi indignati. Stavano di fronte a Hood in silenzio, aspettando di udire da lui ciò che desiderava.

Hood, sempre in vestaglia e pantofole, sedeva al suo scrittoio, con una copia dell'edizione straordinaria del Times davanti a lui; stava rileggendola per l'ennesima volta quando LeConte e il suo assistente entrarono.

 

LA POLIZIA DI NEW YORK RIFERISCE CHE LE LEGIONI DI CEMOLI SONO IN MARCIA VERSO LA CITTÀ; ERETTE BARRICATE, IN ALLARME LA GUARDIA NAZIONALE

 

Voltò il giornale, mostrando i titoli ai due terrestri. — Chi è quest'uomo? — chiese loro.

Dopo un attimo LeConte disse: — Io... non lo so.

— Andiamo, signor LeConte — replicò Hood.

— Mi faccia leggere l'articolo — disse nervosamente LeConte. Lo scorse in fretta; le mani gli tremavano mentre reggeva il giornale. — Interessante — disse alla fine. — Ma non le posso dire nulla; per me è una novità... lei deve capire che le nostre comunicazioni sono scarse, da quando avvenne la Catastrofe, ed è assolutamente possibile che un movimento politico possa sorgere senza la nostra...

— Per favore — disse Hood. — Non sia assurdo.

Arrossendo, LeConte balbettò: — Sto facendo del mio meglio, dopo che mi hanno buttato giù dal letto nel cuore della notte.

Ci fu un po' di agitazione, e dalla porta fece il suo ingresso l'agile figura di Otto Dietrich, piuttosto scuro in volto. — Hood — disse senza preamboli — c'è un'edicola del Times,vicino al mio quartier generale, e ha appena sfornato questo. — E mostrò una copia dell'edizione straordinaria. — Quell'aggeggio dannato lo sta stampando e distribuendo in tutto il mondo, non è vero? Eppure noi abbiamo delle squadre scelte in quella zona e non hanno riferito assolutamente nulla, né blocchi stradali, né truppe tipo milizia in movimento, né alcuna attività di sorta.

— Lo so — disse Hood. Si sentiva stanco. E sotto di loro, il rumore sordo continuava, il giornale stampava la sua edizione straordinaria e informava il mondo sulla marcia dei sostenitori di Benny Cemoli su New York City... una marcia di fantasia, evidentemente, un prodotto fabbricato interamente nel cephalon stesso del giornale.

— Lo fermi — disse Dietrich.

Hood scosse la testa. — No. Io... voglio saperne di più.

Non c'è motivo — disse Dietrich.Evidentemente è difettoso. Danneggiato in maniera molto seria, e non funziona correttamente. Dovrà cercare da qualche altra parte per la sua rete di propaganda mondiale. — E gettò il giornale sulla scrivania di Hood.

Rivolto a LeConte, Hood disse: — Questo Benny Cemoli era in attività prima della guerra?

Ci fu un silenzio. Sia LeConte che il suo assistente erano tesi e pallidi; gli stavano davanti a labbra strette, scambiandosi delle occhiate.

— Non ho molta simpatia per i poliziotti — disse Hood a Dietrich — ma penso che lei potrebbe intervenire.

Dietrich, comprendendo, rispose: — Sono d'accordo. Voi due siete in arresto. A meno che non vi decidiate a dirci qualcosa di più su questo agitatore, su questo fantasma in toga rossa. — Fece un cenno a due agenti che stavano presso la porta dell'ufficio: si fecero avanti.

Mentre i due poliziotti gli si avvicinavano, LeConte disse: — Ora che ci penso, c'era un tipo simile... ma non era molto noto.

— Prima della guerra? — chiese Hood.

— Sì — annuì lentamente LeConte. — Era un buffone, un pagliaccio. Per quanto ricordo, ed è difficile... un buffone grosso e ignorante che veniva da qualche zona arretrata. Aveva una piccola stazione radio, o qualcosa con cui trasmetteva. Vendeva una specie di scatola antiradiazioni che si installava in casa e proteggeva dal fallout delle esplosioni atomiche.

Il suo assistente, il signor Fall, disse: — Mi ricordo. Si presentò addirittura come candidato alle Nazioni Unite. Ma naturalmente fu sconfitto.

— E poi non se ne seppe più nulla? — domandò Hood.

— Oh, sì — disse LeConte. — Morì poco dopo d'influenza asiatica. Sono quindici anni che è morto.

 

A bordo di un elicottero, Hood volò lentamente sopra il territorio di cui si parlava negli articoli del Times,rendendosi conto da solo che non c'era alcun segno di attività politica; non si sentì del tutto sicuro finché non vide con i propri occhi che il giornale aveva perso il contatto con gli eventi del momento. La situazione reale non coincideva affatto con gli articoli del Times; quello era ovvio. Eppure... il sistema omeostatico continuava a funzionare.

Joan, seduta vicino a lui, disse: — Ho qui il terzo articolo, se vuoi leggerlo. — Aveva appena finito di esaminare l'ultima edizione.

— No — disse Hood.

— Dice che sono alla periferia della città — disse lei. — Hanno superato le barricate della Polizia e il governatore ha richiesto l'intervento delle Nazioni Unite.

Pensieroso, Fletcher disse: — Ecco un'idea. Uno di noi, meglio lei stesso, Hood, dovrebbe scrivere una lettera al Times.

Hood lo guardò.

— Credo di poterle dire esattamente come dovrebbe essere scritta — disse Fletcher. — Basta fare una domanda molto semplice. Lei ha seguito sul giornale i resoconti sui movimenti di Cemoli. Dica al direttore... — Fletcher s'interruppe. — Che lei è un simpatizzante e che le piacerebbe aderire al movimento. Chieda al giornale come si fa.

Hood pensò tra sé e sé: In altre parole, dovrei chiedere al giornale di mettermi in contatto con Cemoli. Non poté fare a meno di ammirare l'idea di Fletcher; era ingegnosa, seppur pazzesca. Era come se Fletcher fosse stato capace di controbilanciare lo sconvolgimento del giornale con una deliberata deviazione del senso comune, Avrebbe partecipato alla illusione del giornale. Presumendo che ci fossero un Cemoli e una marcia su New York, sarebbe stata una domanda ragionevole.

Joan disse: — Non vorrei sembrare stupida, ma come si fa a spedire una lettera a un omeogiornale?

— Mi sono informato — rispose Fletcher. — Presso ogni edicola del giornale c'è una cassetta per le lettere, proprio a fianco della fessura, dove s'infilano le monete per pagare. Questa era la legge, quando, decenni fa, vennero fondati gli omeogiornali. Tutto quello che ci serve è la firma di suo marito. — Si frugò nella giacca e ne trasse fuori una busta. — La lettera è già scritta.

Hood prese la lettera e l'esaminò. E così desideriamo far parte della folla che segue questo grasso, mistico buffone,si disse. — E non verrà fuori un titolo sul tipo II CAPO DELL'URUC ADERISCE ALLA MARCIA SULLA CAPITALE TERRESTRE? — chiese a Fletcher, avvertendo una sfumatura di sadico divertimento. — Un omeogiornale intraprendente non tirerebbe fuori un bel titolo in prima pagina da una lettera come questa?

Evidentemente Fletcher non aveva previsto un'eventualità del genere; sembrò contrariato. — Forse sarebbe meglio farla firmare a qualcun altro — ammise. — Qualche membro meno importante del suo stato maggiore. — E aggiunse: — Potrei firmarla io.

Restituendogli la lettera, Hood disse: — Faccia così. Sarà interessante vedere che risposta ci sarà, se pure ci sarà. — Lettere al direttore, pensò. O meglio, lettere a un vasto e complesso organismo elettronico sepolto profondamente nel terreno, responsabile verso nessuno, guidato unicamente dai suoi circuiti di controllo. Come avrebbe reagito a questa conferma esterna della sua illusione? Sarebbe stato riportato alla realtà?

Era, pensò, come se il giornale, durante quegli anni di forzato silenzio, avesse sognato e adesso, risvegliato, avesse consentito a frammenti dei suoi antichi sogni di materializzarsi nelle sue pagine insieme ai resoconti accurati e concreti della situazione attuale. Un miscuglio d'invenzione e di fredda, semplice cronaca. Chi avrebbe prevalso, alla fine? Presto, evidentemente, l'evolversi stesso della vicenda di Benny Cemoli avrebbe portato l'affascinante oratore in toga fino a New York; sembrava che la marcia avrebbe avuto successo. E poi? Come poteva tutto questo quadrare con l'arrivo dell'Uruc, con tutto il suo enorme potere e autorità inter-sistema? L'omeogiornale avrebbe dovuto per forza affrontare ben presto l'incongruenza della cosa.

Uno dei due resoconti avrebbe dovuto cessare... ma Hood provava la spiacevole impressione che un omeogiornale che aveva sognato per dieci anni non avrebbe rinunciato tanto facilmente alle proprie fantasie. Forse,pensò, le notizie su di noi, sull'Uruc e sul suo compito di ricostruire la Terra spariranno dalle pagine del Times, avranno ogni giorno dei titoli sempre più piccoli, poi finiranno in ultima pagina, e alla fine rimarranno solo le imprese di Benny Cemoli.

Non era un'anticipazione piacevole; lo turbava profondamente. Come se,pensò, noi fossimo reali solo finché il Times scrive su di noi; come se noi dipendessimo, per esistere, da quel giornale.

 

Ventiquattro ore più tardi, nella sua edizione normale, il Times pubblicò la lettera di Fletcher. Stampata, faceva uno strano effetto; a Hood sembrò inconsistente e macchinosa... di certo non bastava a ingannare l'omeogiornale, eppura era lì. Era riuscita a superare tutte le fasi della creazione del quotidiano.

 

Caro direttore,

le sue notizie sull'eroica marcia sulla decadente roccaforte della plutocrazia, New York City, hanno acceso il mio entusiasmo. Come può fare un semplice cittadino per partecipare a questa vicenda nel suo svolgersi? La prego di informarmi subito, poiché sono ansioso di unirmi a Cemoli e di dividere con gli altri gli onori e gli oneri della faccenda.

Cordialmente

RUDOLF FLETCHER

 

Sotto la lettera, l'omeogiornale aveva dato una risposta; Hood la lesse in fretta.

 

I sostenitori di Cemoli, hanno un ufficio di reclutamento nel centro di New York; l'indirizzo è 460 Bleekman Street, New York 32. Lei può rivolgersi là, se la Polizia non avrà ancora stroncato queste attività semi-illegali, in considerazione dell'attuale crisi.

 

Toccando un pulsante sulla scrivania, Hood attivò la linea diretta con il comando di Polizia. Quando fu in contatto con l'investigatore capo, disse: — Dietrich, avrei bisogno di una squadra dei suoi uomini; dobbiamo fare una spedizione e potrebbero esserci delle difficoltà.

Dopo una pausa, Dietrich disse seccamente: — Allora non ci sono soltanto le nobili declamazioni, dopo tutto. Comunque ho già mandato un uomo di sorveglianza all'indirizzo di Bleekman Street... Ammiro l'idea della lettera: potrebbe servire a qualcosa. — E ridacchiò.

Poco dopo, Hood e quattro poliziotti centauriani in uniforme nera volavano in elicottero sulle rovine di New York City, alla ricerca di quella che una volta era stata Bleekman Street. Servendosi di una mappa dopo una mezz'ora riuscirono a orientarsi.

— Là — disse il capitano di Polizia a capo della squadra, indicando col dito. — Sarebbe quello, quell'edificio usato come magazzino di generi alimentari. — L'elicottero cominciò ad abbassarsi.

Era proprio un magazzino di generi alimentari; Hood non vide tracce di attività politica, né persone in movimento, né bandiere o vessilli. Eppure... qualcosa di sinistro sembrava aleggiare dietro l'apparente normalità della scena: le ceste di verdura sistemate sui marciapiedi, le donne cenciose con i loro vestiti lunghi che sceglievano le patate invernali, l'anziano proprietario con il suo grembiule bianco che ramazzava con la scopa... era troppo naturale, troppo facile. Era troppo ordinario.

— Dobbiamo atterrare? — gli chiese il capitano.

— Sì — disse Hood. — E state all'erta.

Il proprietario, vedendoli atterrare nella strada, davanti al suo negozio, appoggiò con cura la scopa in un angolo e s'incamminò verso di loro. Era un greco, notò Hood; aveva i baffi folti e i capelli grigi appena ondulati, e li guardava con istintiva prudenza, avendo già capito che non promettevano nulla di buono. Eppure aveva deciso di accoglierli civilmente; non aveva paura di loro.

— Signori — disse il negoziante greco, inchinandosi leggermente. — Cosa posso fare per voi? — Gli occhi si posarono con aria indagatrice sulle nere uniformi della Polizia centauriana, ma l'uomo non mostrò alcuna reazione.

Hood disse: — Siamo venuti per arrestare un agitatore politico. Lei non ha nulla di cui allarmarsi. — E si diresse verso il magazzino, seguito dall'intera squadra, con le armi in pugno.

— Un agitatore politico, qui? — disse il greco. — Suvvia, è impossibile. — Allarmato, si affrettò dietro di loro, ansimando. — Che cosa ho fatto? Assolutamente niente; potete guardare tutto. Fate pure. — E spalancò la porta del negozio, facendoli entrare. — Guardate pure voi stessi.

— È ciò che intendiamo fare — disse Hood. Si mosse con agilità, senza perdere tempo nella parte principale del magazzino; lo attraversò direttamente.

Nel retrobottega c'era il deposito, con le sue scatole di barattoli, contenitori di cartone ammucchiati un po' dappertutto. Un ragazzo era occupato a fare un inventario della merce; alzò gli occhi, stupito, quando essi entrarono: Qui non c'è niente,pensò Hood. Il figlio del proprietario al lavoro, ecco tutto. Sollevando il lembo di una scatola Hood esaminò l'interno. Barattoli di pesche. E vicino una cesta di lattuga; ne strappò una foglia, sentendosi ridicolo e... deluso.

Il capitano di Polizia gli disse a bassa voce: — Niente, signore.

— Lo vedo — disse irritato Hood.

Una porta sulla destra immetteva in un ripostiglio; la aprì e vide delle scope e uno strofinaccio, un secchio zincato, scatole di detergenti. E...

C'erano delle gocce di vernice, sul pavimento. Il ripostiglio era stato dipinto piuttosto di recente; quando si chinò e grattò con l'unghia vide che la vernice era ancora appiccicosa.

— Guardi qua — disse, facendo un cenno di richiamo al capitano.

Il greco disse nervosamente: — Che c'è, signori? Avete trovato qualcosa di sporco e lo riferirete all'Ufficio d'Igiene, vero? I clienti si sono lamentati... ditemi la verità, per favore. Sì, è vernice fresca; teniamo tutto molto pulito. Non è nel pubblico interesse?

Facendo scorrere le mani lungo la parete del ripostiglio, il capitano disse con calma: — Signor Hood, qui c'era una porta. Ed è stata murata, da poco. — Guardò Hood in attesa di istruzioni.

Hood rispose: — Entriamo. Subito.

Rivolto ai suoi subordinati, il capitano diede una serie di ordini. Dal velivolo fu portato dell'equipaggiamento, attraverso il negozio, sino al ripostiglio; un ronzio soffocato si levò mentre i poliziotti iniziavano a segare il legno e l'intonaco.

Impallidendo, il greco disse: — È uno scandalo. Vi farò causa.

— Va bene — assentì Hood. — Ci porti pure in tribunale. — Già una parte del muro aveva ceduto; cadde all'interno con gran fragore e le macerie si sparsero sul pavimento. Si alzò una nuvola di polvere bianca, che poi ricadde.

Alla luce delle lampadine tascabili degli agenti Hood vide una stanza non molto larga, polverosa, senza finestre, che puzzava di vecchio e di stantio... non era stata abitata da molto tempo, si rese conto mentre entrava cautamente. Era vuota. Una specie di magazzino abbandonato con le pareti di legno sporche e scrostate. Forse prima della Catastrofe il negozio disponeva di una maggior quantità di merce; allora ce ne era molta di più a disposizione, ma adesso questa stanza era del tutto inutile. Hood si mosse puntando il raggio della sua torcia verso il soffitto e poi verso il pavimento. Mosche morte, sepolte lì... e poi ne vide alcune vive che strisciavano faticosamente nella polvere.

— Si ricordi — disse il capitano — che è stata murata da poco, da non più di tre giorni. O almeno la verniciatura è stata fatta da poco, per essere proprio precisi.

— Queste mosche — disse Hood. — Non sono ancora morte. — Così non erano passati ancora tre giorni. Forse la muratura era stata fatta il giorno prima.

Per che cosa era servita quella stanza? Si rivolse al greco, il quale li aveva seguiti, ancora teso e pallido, con gli occhi neri che brillavano d'inquietudine. Quest'uomo è furbo,pensò Hood. Da lui otterremo ben poco.

In fondo alla stanzetta le torce dei poliziotti illuminarono un armadio, scaffali vuoti di legno grezzo. Hood ci si avvicinò.

Okay — disse il greco con voce roca, deglutando. — Lo ammetto; qui dentro ci abbiamo tenuto del gin di contrabbando. Ci siamo spaventati. Voi centauriani... — Si guardò intorno, impaurito. — Voi non siete come i nostri dirigenti locali; noi li conosciamo, ed essi ci capiscono. Voi, voi siete fuori della nostra portata. E noi dobbiamo pur vivere. — Allargò le mani, in segno di supplica.

Qualcosa spuntava dietro l'orlo dell'armadio. Appena visibile, poteva anche sfuggire del tutto all'occhio. Un foglio di carta che era andato a finire là dietro, quasi nascosto, e che era scivolato giù. Hood l'afferrò e lo tirò fuori con cautela, facendolo risalire da dietro l'armadio.

Il greco rabbrividì.

Hood vide che si trattava di un ritratto. Un uomo grosso, di mezza età, con le mascelle ampie macchiate di nero da un inizio di barba, con l'aria accigliata e le labbra atteggiate in una smorfia di sfida.

Indossava una specie di uniforme. Un tempo il ritratto era stato appeso alla parete e la gente veniva a vederlo, con aria di rispetto. Sapeva chi era. Era Benny Cemoli, all'apice della sua carriera politica, un condottiero che guardava amaramente i seguaci lì riuniti. Dunque era quello, l'uomo.

Non c'era da meravigliarsi se il Times si mostrava così allarmato.

Rivolto al negoziante greco, Hood disse, sollevandolo il ritratto: — Mi dica. Le ricorda qualcosa?

— No, no — disse il greco. Si asciugava il sudore dalla faccia con un largo fazzoletto rosso. — No di certo. — Ma evidentemente gli ricordava qualcosa.

Hood disse: — Lei è un sostenitore di Cemoli, non è vero?

Silenzio.

— Lo porti via — disse Hood al capitano. — E andiamocene. — Uscì dalla stanza portandosi via il ritratto.

Con il ritratto stesso sulla sua scrivania, Hood rifletté. Non è solo un'invenzione del Times. Ora sappiamo la verità; l'uomo esiste realmente e ventiquattro ore fa questo ritratto era appeso a una parete, in piena vista. Sarebbe ancora lì, ora, se l'Uruc non avesse fatto la sua apparizione. Li abbiamo spaventati. La gente della Terra ha molto da nasconderci, e lo sa; stanno facendo dei passi, con rapidità ed efficienza, e noi saremo fortunati se potremo...

Joan interruppe le sue riflessioni, dicendo: — Quindi l'indirizzo di Bleekman Street era realmente un luogo d'incontro per loro. Il giornale aveva ragione.

— Sì — rispose Hood.

— Dov'è ora?

Vorrei saperlo, pensò Hood.

— Dietrich ha già visto il ritratto?

— Non ancora — rispose Hood.

Joan disse: — È stato lui il responsabile della guerra, e Dietrich lo scoprirà.

— Nessun uomo da solo — replicò Hood — si può ritenere responsabile.

— Ma lui ha avuto un ruolo di rilievo — disse Joan. — Ecco perché si sono sforzati tanto di cancellare ogni traccia della sua esistenza.

Hood assentì.

— Senza il Times — disse lei — saremmo mai riusciti a scoprire l'esistenza di una figura politica come Cemoli? Dobbiamo molto al giornale. Essi l'hanno sottovalutato, oppure non sono stati capaci di comprendere. Probabilmente lavoravano in fretta; non avrebbero potuto pensare a tutto, nemmeno in dieci anni. Deve essere difficile cancellare ogni traccia rimasta di un movimento politico esteso su tutto il pianeta, specialmente quando il suo capo è riuscito a impossessarsi del potere assoluto, alla fine.

— È impossibile cancellarle — disse Hood. Il magazzino murato nel retro di un negozio greco... era sufficiente per dirci ciò che avevamo bisogno di sapere. Ora gli uomini di Dietrich possono fare il resto. Se Cemoli è vivo, alla fine lo troveranno e se è morto... sarà difficile convincerli, conoscendo Dietrich. Non smetteranno mai di cercare, ormai.

— Una cosa buona c'è, in tutto questo — disse Joan, — ed è che ora molti innocenti avranno un po' di respiro. Dietrich non se ne andrà in giro ad accusarli; sarà troppo impegnato a seguire le tracce di Cemoli.

Vero, pensò Hood. Ed era importante, questo. La Polizia centauriana sarebbe stata completamente occupata per molto tempo, e questo era un bene per tutti, compreso l'Uruc e il suo ambizioso programma di ricostruzione.

Se non ci fosse mai stato un Benny Cemoli, pensò, sarebbe stato quasi necessario inventarlo. Uno strano pensiero... si chiese come gli fosse venuto. Esaminò di nuovo il ritratto, tentando di ricavare sull'uomo quanto più possibile da quella piatta immagine: che tipo era stato Cemoli? Aveva raggiunto il potere attraverso le parole, come tanti demagoghi prima di lui? E i suoi scritti... forse qualcuno sarebbe saltato fuori. O magari delle registrazioni su nastro dei discorsi che aveva tenuto, il vero suono della sua voce. E forse anche dei video-nastri. E allora saremo in grado di sperimentare da soli come si viveva all'ombra di un tale uomo,pensò.

La linea diretta con l'ufficio di Dietrich ronzò. Alzò il ricevitore.

— Abbiamo qui il greco — disse Dietrich. — L'abbiamo drogato e ha confessato molte cose; le possono interessare.

— Sì — rispose Hood.

Dietrich continuò. — Ha detto di essere stato un sostenitore per diciassette anni, un vero veterano del movimento. Si incontravano due volte alla settimana nel retrobottega del suo negozio, nei primi tempi, quando il movimento era piccolo e scarsamente potente. Quel ritratto che ha lei - io non l'ho visto, naturalmente, ma Stavros, il nostro greco, me ne ha parlato - è effettivamente antiquato, giacché molti altri più recenti sono stati in voga tra i sostenitori, in questi ultimi tempi. Stavros l'aveva conservato per ragioni sentimentali. Gli ricordava i vecchi tempi. Più tardi, quando il movimento divenne più forte, Cemoli smise di farsi vedere al negozio e il greco perse ogni contatto personale con lui... continuò a essere un fedele iscritto, ma la cosa divenne piuttosto astratta, per lui.

— E la guerra? — chiese Hood.

— Appena prima della guerra, Cemoli s'impadronì del potere con un colpo di Stato, qui in Nord America, nel corso di una marcia su New York City, durante una grave depressione economica... c'erano milioni di disoccupati, e Cemoli ottenne proprio da loro un grosso appoggio. Tentò di risolvere i problemi economici attraverso un'aggressiva politica estera, attaccando parecchie repubbliche latino-americane che erano nell'orbita di influenza dei cinesi. Sembra che sia così, ma Stavros è poco chiaro per quel che riguarda la situazione nel suo insieme... dovremo ricavare altri particolari dai seguaci che scopriremo. Soprattutto dai più giovani; in fondo, lui ha più di settant'anni.

— Spero che lei non intenda processarlo — disse Hood.

— Oh, no. È soltanto una fonte d'informazioni; quando ci avrà detto tutto quello che sa, lo lasceremo ritornare alle sue cipolle e alla sua salsa di mele in scatola. È innocuo.

— Cemoli sopravvisse alla guerra?

— Sì — disse Dietrich. — Ma questo è stato dieci anni fa; Stavros non sa se adesso è ancora vivo. Personalmente penso che lo sia, e andremo avanti sulla base di questa ipotesi finché non si dimostrerà sbagliata. Dobbiamo farlo.

Hood lo ringraziò e riattaccò.

Mentre si voltava udì, sotto di lui, il rumore sordo e monotono. L'omeogiornale si era di nuovo rimesso in movimento.

Non è un'edizione ordinaria — disse Joan, consultando frettolosamente l'orologio da polso. — Perciò deve essere un'altra straordinaria. È eccitante quando fa così; non vedo l'ora di leggere la prima pagina.

Che cosa ha fatto ora Benny Cemoli? si domandò Hood. Secondo il Times, nella sua cronaca sfasata dell'epopea di quell'uomo... quale stadio, che si è in realtà verificato anni prima, è stato raggiunto adesso? Qualcosa di eccezionale, per meritare un'edizione straordinaria. Sarà interessante, non c'è dubbio; il Times sa che cosa fa notizia.

Anche lui non vedeva l'ora di leggere.

 

Nel centro di Oklahoma City, John LeConte infilò una moneta nella fessura dell'edicola che il Times aveva lì da molto tempo. La copia del giornale, l'ultima edizione straordinaria, scivolò giù e lui la prese, leggendo di corsa i titoli principali, giusto il tempo di verificare le notizie essenziali. Poi attraversò il marciapiede e riprese posto di nuovo sul sedile posteriore della sua automobile a vapore con autista.

Il signor Fall disse con circospezione: — Signore, ecco il materiale originale, se lei vuol fare un confronto parola per parola. — Il segretario gli porse l'incartamento, e LeConte lo prese.

La macchina si avviò: senza che gli fosse stato detto nulla, l'autista si diresse verso il Quartier Generale del Partito. LeConte si appoggiò all'indietro, si accese un sigaro e si mise comodo.

Sulle sue ginocchia il giornale mostrava i suoi enormi titoli di testa.

 

CEMOLI ENTRA IN COALIZIONE CON IL GOVERNO DELLE NAZIONI UNITE; TEMPORANEA CESSAZIONE DELLE OSTILITÀ

 

Rivolto al segretario, LeConte disse: — Il mio telefono, per favore.

— Sì, signore. — Il signor Fall gli porse il telefono portatile da campo. — Ma siamo quasi arrivati. Ed è sempre possibile, se mi consente un'osservazione, che intercettino la conversazione.

— Sono troppo occupati a New York — disse LeConte. — Tra le rovine. — In una zona che non ha mai avuto importanza, per quel che ricordo,si disse. Comunque, il consiglio del signor Fall poteva essere giusto; decise di lasciar perdere la telefonata. — Cosa pensa dell'ultimo articolo? — chiese al segretario, sollevando il giornale.

— Merita un grosso successo — disse il signor Fall, annuendo.

LeConte aprì la borsa e ne tirò fuori un libro di testo, rovinato e senza copertina. Confezionato soltanto un'ora prima, si trattava del prossimo indizio che doveva essere seminato perché gli invasori di Proxima Centauri lo scoprissero. Questo era il suo contributo, e personalmente ne era molto fiero. Il libro sottolineava, fin nei minimi particolari, il programma di cambiamento sociale di Cemoli, la rivoluzione descritta con un linguaggio comprensibile agli allievi delle elementari.

— Posso chiedere — disse il signor Fall — se la gerarchia del Partito intende far scoprire loro un cadavere?

— Alla fine — rispose LeConte. — Ma questo sarà fra parecchi mesi. — Prese una penna dalla tasca della giacca e scrisse sul libro sciupato, rozzamente, come avrebbe fatto uno scolaro:

 

ABBASSO CEMOLI

 

Forse stava andando troppo in là? Decise di no. Doveva esserci una certa resistenza. Del tipo spontaneo e scolastico dei ragazzi. Aggiunse:

 

DOVE SONO LE ARANCE?

 

Sbirciando oltre la sua spalla, il signor Fall disse: — Che cosa significa?

— Cemoli aveva promesso delle arance ai giovani — spiegò LeConte. — Un'altra sparata inutile che la rivoluzione non realizzerà mai. È stata un'idea di Stavros... lui ha un negozio di frutta. Un tocco intelligente. — Serve a dare,pensò, appena una sfumatura di verità. Sono queste le sfumature che occorrono.

— Ieri — disse il signor Fall — mentre mi trovavo al Quartier Generale del Partito, ho sentito un nastro appena registrato. Cemoli che si rivolge alle Nazioni Unite. Era strano; se non avessi saputo...

A chi l'hanno fatto preparare? — chiese LeConte, domandandosi perché non ci avesse pensato lui.

A un tizio di Oklahoma City, che lavora in un night club. Piuttosto ignoto, naturalmente. Credo che sia specializzato in ogni genere d'imitazioni. Quel tipo ha dato al discorso un tono magniloquente, terribile, che per me era forse un po' eccessivo, ma d'indubbio effetto. C'era un gran rumore di folla... devo dire che mi è piaciuto.

E intanto, pensò LeConte, non ci saranno processi contro i criminali di guerra. Noi che eravamo i capi durante il conflitto, sulla Terra e su Marte, noi che avevamo posti di responsabilità... noi siamo salvi, almeno per un po'. E forse per sempre. Se la nostra strategia continua a funzionare. E se la galleria che porta al cephalon dell'omeogiornale, costruita in cinque anni di lavoro, non viene scoperta. O non crolla.

La macchina a vapore parcheggiò nello spazio riservato davanti al Quartier Generale del Partito; l'autista venne ad aprire la portiera, e LeConte discese con calma, avanzando nella luce del giorno senza provare alcuna ansietà. Gettò il sigaro nel tombino e, attraversato il marciapiede, entrò nell'edificio che gli era familiare.

 

FINE